Càrcel de Tumbes. (IV)

En la carcel de Tumbes.

Post n°4 pubblicato il 22 Febbraio 2009 da viajera67

 IV. Un pomeriggio il postino mi consegno’ una lettera: mi invitavano a partecipare ad un gruppo di studio della Commissione della Verità e della Riconciliazione Nazionale. Era un progetto che aveva creato il governo di transizione di Valentin Paniagua, perché tutti i cittadini potessero denunciare gli abusi subiti sia da parte dello Stato, che da parte dei gruppi armati. Ovviamente era un progetto ambizioso. In America Latina e’ complicato parlare di libertà, democrazia, e di rispetto dei diritti umani.

Nel 2001 l’ex dittatore Alberto Fujimori aveva dato le dimissioni via fax, quando era in viaggio verso l’oriente, e si era rifugiato in Giappone. Alessandro Toledo era divenuto presidente di un paese che ritornava alla democrazia dopo vent’anni di guerra civile, con innumerevoli colpi di stato e con una situazione economica devastante. Il paese attendeva la svolta da un uomo che si presentava vestito da inca, rivendicando le sue radici meticce e popolari.

Alessandro Toledo aveva realizzato una famosa marcia di protesta, chiamata “de los cuatro suyos”, contribuendo con essa alla caduta della dittatura Vladimiro-Fujimorista. La gente gli credeva perché parlava e vestiva come loro. Durante il periodo di Toledo, quindi, la Commissione della Verità doveva tirar fuori due decadi di violenza. Per farne cosa, nessuno lo sapeva.

Furono organizzati singolari tavoli di discussione. Gomito a gomito sedevano le vittime della violenza, gli artefici della stessa, e chi aveva il compito di “ri-conciliare”. C’era un livello di tensione tale, da spaccare l’aria. Il presidente della Corte non sapeva più a che santo appellarsi. Quando le forze dell’ordine prendevano la parola i familiari delle vittime gli urlavano contro: torturatori, assassini, mercenari al servizio dello Stato. Insomma: roba da matti!

Dopo una settimana di lavori, eravamo tutti moralmente a pezzi. Venivano descritte minuziosamente le torture realizzate sia da parte dei senderisti, che da parte dei “comuneros” e delle forze dell’ordine. Fu in quell’occasione che gli avvocati della Commissione, mi proposero di raccogliere le testimonianze di cinque senderisti, o presunti tali, rinchiusi in carcere.

Mi affiancarono ad un avvocato e pensai, tristemente, che quel giorno c’era un sole meraviglioso, a Tumbes. Intervistammo la compagna di un ragazzo che era dentro da dieci anni, e a cui non avevano ancora confermato la sentenza. Un pentito lo aveva accusato di essere uno di Sendero, di aver fatto delle scritte propagandistiche sui muri, di aver distribuito dei volantini. La polizia, incappucciata, gli era piombata in casa, e lo aveva torturato, oltre che arrestato. Anni dopo il pentito si era ri-pentito, dichiarando l’innocenza del giovane, e confessando di aver tirato fuori dei nomi a casaccio dal bagaglio della memoria. Si scusò per non esser stato capace di sopportare la tortura.

Il pentito fu liberato subito dopo, ma il giovane era rimasto ancora in prigione perché avrebbe potuto sollevare il caso dinanzi alla Corte Ibero-americana dei Diritti Umani, e chiedere un’indennità’ allo stato. “Non aveva compiuto neanche 18 anni, quando se lo portarono via” ci raccontò sua moglie, “arrivarono, distrussero tutto, temevo che violentassero anche me. Il peggio fu quello che avvenne dopo: il silenzio della gente, la paura, gli sguardi di chi pensava che ce la fossimo cercata”.

Era una guerra civile, e la regola era colpirne cento, per educarne dieci. A chi denunciavi le violenze subite.? Lo stato era artefice e complice di tanta violenza. In silenzio io e l’avvocato ci dirigemmo verso il carcere. “Di questo caso ti occupi tu, mi disse. Dato che sei straniera, puoi scrivere quello che senti davvero”. Mi ritrovai faccia a faccia con il detenuto, dopo aver ancora ascoltato la sua storia e gli chiesi: “tu cosa preferisci? Avviamo le pratiche per una denuncia,o chiediamo un indulto? ”. Proporrei un indulto”, mi rispose, “nessuno potrà più restituirmi gli anni che ho passato qui dentro. Mi pento. Mi pento di non aver fatto nulla, chiedo la Grazia al presidente della repubblica, e spero di uscire quanto prima. Se tu puoi far qualcosa, fallo, e grazie di tutto”.

Casi come questi, nei quali l’innocenza dell’accusato era cosi evidente, si risolvevano in poco tempo. Il fascicolo di Jose’ aveva una scritta grande: innocente. La commissione della Verità, come organo governativo, poteva arrivare là dove la burocrazia avrebbe tardato secoli. E i giudici incappucciati che avevano condannato tanti giovani innocenti, potevano rivoltarsi nelle toghe. La giustizia, a volte, se pur tardi, arriva persino in luoghi sperduti come Tumbes. Se può chiamarsi giustizia liberare un innocente dopo dieci anni di galera.

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Lucha al terrorismo (V)

lucha al terrorismo

Post n°5 pubblicato il 22 Febbraio 2009 da viajera67

V. Una settimana dopo, me ne andavo in giro per la città, quando mi sentii chiamare. Era José, l’avevano appena liberato. Lo invitai a casa mia, cosi, per fare due chiacchiere. Gli regalai due libri di poesia: uno di Cesar Vallejo, e un altro di Mario Benedetti. Eravamo appassionati di letteratura latino-americana e lui avrebbe dovuto terminare gli studi che la guerra civile gli aveva interrotto. Cosa farai adesso?, gli chiesi. Mi comprerò un mototaxi, cosi porterò in giro la gente. Ma sono qui anche per raccontarti un’altra storia.

Il giorno in cui fui arrestato, mi portarono in una stanza, nella quale c’era una ventina di altri ragazzi. Eravamo tutti bendati, con le mani legate. Entravano e ci torturavano uno alla volta, ma la cosa peggiore era sentire le grida degli altri compagni. In quel momento pensi: adesso prendono anche me. L’incertezza ti ammazza. Non senti più il corpo. Non hai più né fame, né sente, né sonno. Ti gira la testa e, se cadi per terra, ti picchiano perché ti rialzi. A un certo punto, ci dissero che ci avrebbero trasferito, e fu quasi un sollievo.  

Durante il tragitto, per lo meno, sarebbe stato difficile abusare di noi. Era come cambiare aria, dare una speranza alla vita. Ci misero sulle auto come se fossimo dei fagotti, ci insultavano, eravamo pieni di lividi e di sangue. A un certo punto uno dei camion si fermo’; poi si fermarono anche gli altri, in fila. Rimanemmo in silenzio aspettando il peggio. Intorno a noi solo il rumore delle onde del mare.

Giulia era seduta accanto a me, ma capimmo che venivano per portarsela via. Lei gridava, ma non ci fu nulla da fare: colpivano anche noi, che ci aggrappavamo al suo corpo come se fosse la nostra ultima speranza di vita. Sentivamo le sue urla quando, uno dopo l’altro, abusarono di lei. Io accorsi in suo aiuto, ma una canna di fucile mi colpi’ alla nuca, e svenni in acqua.  

Mi ripresi qualche minuto dopo, portato a riva dalle onde del mare. “Ha mai denunciato Giulia, questa violenza?”, chiesi. “Certo, fini sui giornali. E furono tutti premiati, per il servizio reso allo Stato. Erano diciassette, tutti bravi padri di famiglia”.

Quando andai a trovare Giulia mi presento’ Laura, sua figlia. Mi portai dietro dei secchielli, delle macchinine di plastica, cosi che lei giocava ed io potevo parlare con la mamma. “Mi tennero due anni in carcere, anche dopo la violenza. Poi mi liberarono senza spiegarmi neppure perché mi avessero messa li’. Erano diciassette bestie e mi violentarono senza pietà. Sanguinavo da tutte le parti, svenni varie volte, mi sentivo più morta che viva, e questa la chiamarono lotta al terrorismo”.

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Viaje a Quio (VI)

Viaje a Quito.

Post n°6 pubblicato il 22 Febbraio 2009 da viajera67

VI. Verso la fine di novembre del 2002, si organizzava a Quito un incontro latinoamericano di gruppi indigeni, contro l’ALCA (Area de Libre Comercio de Las América). Poco o nulla sapevo del trattato di libero commercio proposto dagli Stati Uniti e, meno ancora, di come fossero i gruppi indigeni. Ovviamente decisi di andare nella Capitale dell’Ecuador, situata a circa 2.800 metri sul livello del mare, con un centro storico meraviglioso, circondata dalle montagne. Presi un bus alla frontiera con l’Ecuador, e attraversai città e campagne piene zeppe di alberi di cocco, di “avocatos”, di banane “chiquita” e con tanto, tanto “calor”, sentii di essere approdata in Africa.

A Quito mi accolse una moltitudine di indigeni che aveva marciato per settimane, dai posti più sperduti del paese, fino a giungere alla capitale per dire NO all’ALCA, al TLC (Tratado de Libre Comercio) e all’imperialismo americano. Era la prima volta che vedevo tanta radicalità nelle piazze. In Europa avevo soprattutto visto giovani studenti che protestavano. Era difficile vedere donne di sessanta, settant’anni con queste gonne immense chiamate “polleras”, con le trecce ben fatte, con questi cappelli coloniali, con uno o due figli portati sulla spalle come se fossero dei fagotti. Era difficile, in Europa, vedere queste donne con il pugno alzato, con le idee cosi’ chiare, con questa forza di resistere e di lottare sino alle estreme conseguenze. A donne cosi’ io avrei ceduto il posto in un bus, le avrei accompagnate a raccogliere fiori, ma non avrei mai pensato di condividere con loro una “marcha de protesta”.

In quei giorni il paese sperava in un cambiamento rivoluzionario con Lucho Gutierrez, candidato alla Presidenza. Aveva promesso appoggio agli indigeni, riforme sociali e un secco NO al trattato del libero commercio. Era una nuova colonizzazione di tipo economico. I paesi europei prima, e gli Stati Uniti dopo, non avevano più bisogno di conquistare con le armi o appoggiare le dittature miliari dei paesi latino-americani. Bastava introdurre misure economiche in grado di rendere schiavi e dipendenti i paesi latino-americani. Dapprima obbligandoli a specializzarsi nella coltivazione di un solo prodotto, canna da zucchero, caffè, banana o cacao. In seguito abbassando o rialzando i tassi di interesse, per far crollare o rialzare le esportazioni. Le classi popolari rimanevano alla “merche’ “ di precari contratti di lavoro, anche quando le classi dominanti si arricchivano a dismisura. Paesi come la Bolivia e il Paraguay sarebbero stati ricchi come la Svizzera o la Germania, se le loro classi dirigenti non avessero svenduto le risorse naturali del paese. Per evitare questo, gli indigeni equatoriani, uniti a quelli della Bolivia e del Perù, marciavano verso la capitale di uno dei paesi più piccoli e affascinanti del mondo.

L’altro candidato alla presidenza era Noboa, latifondista di Guayaquil, produttore a livello mondiale di banane, e uno degli uomini più ricchi del mondo. Lui si che proponeva accordi economici con gli Stati Uniti, e l’introduzione di modello neo-liberale nella vita sociale del paese. Educazione per pochi, e di qualità. La gente non lo voleva, ma aveva un’influenza grandissima, nel paese. Proprietario di vari canali televisivi, era sempre “tra la folla”, spacciando il suo populismo da quattro soldi per democrazia allo stato brado.

La campagna elettorale era violentissima, e tutto mi sarei aspettata eccetto che la polizia caricasse in maniera cosi violenta le donne indigene. Dopo la prima carica c’erano bambini che vomitavano, e uomini che gridavano. Io come sempre avevo una paura folle. Dopo la manifestazione di Genova del 2001, non sopporto più cariche con lacrimogeni e uomini in divisa.

Fu in quei giorni che conobbi Anna, una simpatica architetta che aveva studiato a Parigi. Condividemmo un sacco di cose durante le nostre passeggiate a Quito, l’amore per la libertà e per la letteratura. Passavamo ore a leggere le poesie di Fernando Pessoa e di Mario Benedetti, o i romanzi di Bryce Echenique e di Varga Llosa. Ci perdevamo nel museo Quayasamil della città parlando di Manuelita Saenz, l’amante guerrigliera di Simon Bolivar, e di Camillo Torres, della teoria della liberazione colombiana.

Finalmente vinse le elezioni Lucho Gutierrez. Per la prima volta, nella storia della repubblica ecuatoriana, uomini e donne indigene, furono nominate ministri ed entrarono in Parlamento. Anna ed io festeggiammo insieme nelle piazze della capitale. Sconfiggere Noboa era stato un miracolo, ma ci eravamo riusciti.

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Capodanno in acqua VII)

capodanno in acqua.

Post n°7 pubblicato il 22 Febbraio 2009 da viajera67

 VII. Si avvicinava la fine dell’anno, ed avevo voglia di conoscere alte parti del Perù. Avevo un contratto nazionale, e potevo chiedere un trasferimento da qualche altra parte. Fu cosi che un giorno mi chiamo’ e mi disse: c’è’ un posto disponibile a Cusco. Ti va di cambiare aria??

Altro che cambiare aria: sarei andata a vivere in una citta’ a 3.800 metri sul livello del mare, circondata dalle Ande, a poche centinaia di Km dal lago Titicaca, il più alto e il più bello del mondo, circondata da rovine incaiche, da Tipon a Saxawam, al Machu Pichu. Uno dei luoghi più turistici e più frequentati d’America Latina, una delle sette meraviglie del mondo, e sarei stata coordinatrice dei corsi di italiano nell’Università Sant’Antonio Abate.

Ovviamente avrei accettato l’invito, ma prima mi sarei goduta qualche giorno di vacanza al mare a Mancora, in una città fra Tumbes e Piura, piena di fricchettoni, di falsi alternativi, ma anche di tantissima bella gente.

Era la prima volta che passavo un capodanno in acqua, e non credevo ai miei occhi. Eravamo alla fine di dicembre e la gente prendeva la tintarella. In spiaggia, di notte, c’erano tanti falò, la gente suonava e fumava a più non posso. Il capodanno fu mitico. Verso mezzanotte si spararono i fuochi d’artificio in mare, e ci lanciammo tutti in acqua a ricevere il nuovo anno. Fu meraviglioso: abbracciai colombiani, tedeschi, svedesi, boliviani, cajamarchini, trujillani, olandesi.

Il giorno dopo, all’alba, iniziarono i ragazzi con i loro surf, a cercare le onde più belle del pacifico. Noi prendevamo un caffè o dormivamo in spiaggia. Fu meraviglioso iniziare cosi il nuovo anno. Era il 2003 e mi accingevo a trasferirmi nella mitica città di Cusco.

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Viaje a Cuzco (VIII)

Viaje a Cuzco

Post n°8 pubblicato il 22 Febbraio 2009 da viajera67

VIII. Mentre nell’università di Tumbes la parola chiave era: relax, relax e ancora relax; in quella di Cusco fu: lavoro, lavoro, e ancora lavoro. Mi avevano detto che la responsabile dei corsi di italiano era soprannominata: “la negriera”, ma non volevo prestare attenzione alle maldicenze. Arrivai al suo ufficio e mi accolse cordialmente. Mi spiego’ che nel centro di lingue dell’università S. Antonio Abad di Cusco, c’erano circa 4.000 alunni che studiavano italiano, inglese, francese e checua. La seconda lingua, dopo l’inglese, era l’italiano. Lei si aspettava grandi cose da me, tanto per iniziare avrei dovuto esaminare i miei colleghi e presentarle una relazione sulle loro conoscenze tecniche e capacita’ didattiche.

Mi si raggelò il sangue, ma decisi di non tirarmi indietro. Mi presentarono subito Carolina, una collega peruviana che aveva vissuto cinque anni in Italia, e che insegnava li da anni. Mi guardo’ terrorizzata e mi sembrava che le tremasse persino una mano. Le proposi un caffè in un bar, per chiacchierare sui corsi che avremmo dovuto tenere assieme. Tanto per iniziare ero davvero felice di avere un’amica a Cusco, ero appena arrivata ed avevo tanta voglia di passeggiare, persino sotto la pioggia.

Parlammo del più e del meno, e Carolina inizio’ a rilassarsi. Dopo un po’ le dissi: senti, ma come funzionano le cose da queste parti?? A me hanno dato un sacco di lavoro, ogni giorno ho più’ di duecento alunni a lezione. Mi hanno persino detto che devo controllare il vostro lavoro. Mi sembra assurdo: tu cosa mi consigli?? “sapevo che eri una brava persona”, mi disse lei. Se vuoi ci mettiamo d’accordo e ci dividiamo il lavoro ed i compiti da fare.

Lavorammo assieme con molto entusiasmo per più di un anno. Legai anche con altri colleghi, ma Carolina fu davvero speciale. Non ci nascondevamo nulla e commentavamo assieme quello che ci succedeva, dalle cose più insignificanti a quelle più gravi. Ridevamo un sacco perché in quell’università si lavorava davvero come scannati. Ti facevano recuperare tutto: dai giorni in cui c’era sciopero dei bus, e gli alunni non venivano, a quando vinceva la squadra locale e le università chiudevano, a quando c’erano scosse di terremoto e la gente scappava.

Poiché avevo un contratto con l’Ambasciata, potevo permettermi delle libertà che cercai di usare per migliorare anche la qualità di vita dei miei colleghi. Un giorno entrai nella sala dei professori e lessi una comunicazione che ci imponeva di recuperare persino i giorni delle festività pasquali, lavorando il sabato e la domenica successivi. E no, eh! Questo era troppo! Entrai nell’ufficio della negriera e le dissi che come donna profondamente cattolica (che non ero), non potevo ne’ lavorare, ne’ recuperare i giorni di pasqua.

I colleghi non sapevano se ridere o piangere. Le dissi che avrei mandato una lettera di protesta all’ambasciata italiana o al vescovo della città. Pregai la negriera di ritornare sui suoi passi, altrimenti avrei sollevato una protesta.

Il giorno dopo uscì un nuovo comunicato. Avevamo tutti quattro giorni liberi non recuperabili. Festeggiammo a più non posso, ed io partii per la Bolivia, a visitare uno dei paesi più poveri e affascinanti del mondo.

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Carmen.

Carmen

Post n°9 pubblicato il 24 Febbraio 2009 da viajera67

 Carmen llegó corriendo a su clase. La vislumbré detrás de la puerta, en el pasillo. El profesor ya había pasado lista y empezaba a explicar Nietzsche y Shopenahuer. Carmen tenía miedo: de entrar tarde, de retrasar sus estudios, de dejarlos para siempre. Iba a ser madre, una niña como yo, no hace mucho jugábamos juntas en el parque de la ciudad.

Tocó la puerta, el profesor la miró de reojo, interrumpió su clase, la hizo pasar. Carmen se sentó en la esquina, en silencio. Ya no buscaba mi mirada, algo se había roto entre nosotras desde cuando empezó a salir con aquel muchacho. Nadie lo soportaba, había dejado a varias chicas embarazadas, no tenía trabajo y, encima de todo, la belleza no era su punto fuerte.

Todo el mundo miraba la barriga de Carmen, y pensaba: “¿Te habrá gustado, eh? ¿Cuántas veces lo habrás hecho?” Quería proteger su alma, su cuerpo, abrazarla como cuando su padre se enteró y le pegó: por la plata que no alcanzaba, con violencia, por su vida destrozada.

Pero entonces Carmen era fuerte, pensaba irse a vivir con él, acabar sus estudios, buscarse un trabajo. Lo amaba y confiaba en aquel hombre con cara de niño.

Un día la vi triste, no le pregunté nada pero sabía que no era su padre el que la estaba matando por dentro. “¿Conoces a alguien que..?”. Me preguntó. “No, Carmen, tu barriga es demasiado grande. Tienes que seguir adelante”. Odió mi barriga plana, mi vida rebelde y la frescura de mis años. Su cuerpo ya no era el de antes; entregado por amor y, noches tras noches, violado por pasión. Él se había ido, no hacía falta preguntar nada.

¿Cómo te sentías, Carmen, en aquellos días? ¿Por qué no me buscaste?. Tus notas empezaron a bajar, tu cabeza estaba en otro lado. No sabía cómo acercarme a ti, mi vida era la de siempre. Mis clases, los paseos en el parque, los juegos de niña.

Sabía que lo extrañabas cuando dormías sola, por las noches; y cuando despertabas por las mañanas, y te dirigías al hospital. Te miraba de reojo en la clase de filosofía. Quería saber cómo estabas, cómo te iba todo. De repente un milagro: te levantaste con toda tu barriga, miraste al profesor y te dirigiste a la clase. Tenías exposición oral, la vida y las obras de Marcuse, un tema difícil.

Empezaste a hablar, te miraba a los ojos: anda, Carmen, no te detengas. El nazismo, el hombre unidimensional. Sigue, Carmen, por favor. Eros y civilización, la crítica del lenguaje. Un silencio de tumba, no volaba una mosca. Te estabas jugando la carrera, no podías seguir así, perdida en la nada. Finalmente la sonrisa del profesor: muy bien, Carmen, has hecho un buen trabajo.

No sé por qué pero mis manos se movieron solas, estaba muy tensa, explotaba de felicidad. Un aplauso fuerte. Lo conseguiste, Carmen, la niña será linda como tú, acabarás la carrera. Carmen sonrió, era la primera sonrisa verdadera que le salía después de tiempo. Voltéate, Carmen, necesito verte. Pasaron los minutos y nada, luego buscaste mi mirada, me sonreíste y todo volvió a ser como antes.

 

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Anarquista y sex worker.

puta y anarquista

Post n°10 pubblicato il 24 Febbraio 2009 da viajera67

 

Frente de Aragón, mayo del ’37.

Guerra civil española.

Diálogo entre una Prostituta y una Anarquista.

P.- No me mires así, Lucía.

A.- ¿Estuviste con Paco?

P. – No es asunto tuyo.

A. – Con Paco, con Juan… Dime: ¿Les cobraste?

P. – ¿Qué más te da?. Aquí vamos a morir todos.

A. – Estamos en plena revolución. Los compañeros no pueden contagiarse.

P. – Con pulgas y piojos me siento peor que en Barcelona.

A. – Ya sé: el frío, los fascistas… esta maldita guerra no acaba. Tienes que aguantar, compañera..

P. – ¡No me llames así!. ¡Yo no soy compañera de nadie!

A. – ¡Mira guapa, que aquí nadie está por gusto!.

P. – ¿Y tú qué? ¡Anoche te vi con Ramón!; ¡No lo niegues que se enteraron todos!.

A. – No vamos a comparar. Ramón es mi compañero, lo era desde antes…

P. – ¡Estoy harta de toda esta hipocresía! ¿Si quiero echarme un polvo tengo que consultarme con el Comité Central?

A. – No me lo pongas difícil. Sabes que la prostitución está prohibida.

P. – ¿Y quién la prohibió?

A. – Ya te dije: los hombres se están muriendo en mancha…

P. – No me eches la culpa…

A. – No es cuestión de culpa…

P. – ¿Y qué? ¿Nos vamos a encerrar en un monasterio?.

A. – Las monjas se están llevando la peor parte. Desde luego apoyan a Franco y a todos los fascistas de Europa.

P. – Pobrecitas…

A. – Reza por ellas, si tanto te importan.

P. – Aquí tengo un rosario.

A. – ¡Ahí, noooo! ¡Una puta con rosario!. ¡Sólo esto faltaba!.

P. – ¿Está prohibido rezar?

A. – Sólo los fascistas van a la iglesia.

P. – ¡No es verdad! !Yo iba con mi abuelita, cuando era niña!

A. – ¿Y luego qué? ¿Te perdiste en el camino?

P. – Mira donde estoy. ¡Disparando a los fascistas que tanto bien me hicieron!

A. – ¡No hables así, joderrrrr! Estos cerdos prepararon el golpe y mataron a niños inocentes..

P. – Lo siento, Lucía. Es que cuando me siento sola digo tonterías.

A. – ¿Por qué viniste al frente, entonces?

P. – Para estar contigo, Lucía

A. – No me mires así. ¿Que’?,¿Eres lesbiana?

P. – ¿ Esto también está prohibido?

A. – No lo sé Lola, no me compliques la vida.

P. – Y suerte que vine con los libertarios… Aquí la anarquía está tan muerta como la vida misma.

A. – Lo siento, a veces no sé lo que digo.

P. – Somos dos.

A. – Esta guerra nos está matando por dentro. Nadie nos vende armas, Italia y Alemania apoyan a Franco.

P. – ¿Y los rusos?

A. – No me hables de ellos, que son los peores. Les dimos toda la plata del banco y enviaron sólo burócratas asesinos.

P. – Es complicada la cosa.

A. – Estamos solos, Lola.

P. – Abrázame, Lucía.

A. – Stalin nos traicionó.

P. – ¿Este hombre con bigote?

A. – Él.

P. – A mí siempre me dio mala vibra. Yo a los hombres me los imagino en la cama, haciendo cositas; y cuando no me los puedo imaginar así pienso que son malos. Deformación profesional.

A. – Eres tan guapa, Lola.

P. – Ahora me sonrojo.

A. – ¿Tú?

P. – Bueno, soy puta pero contigo es diferente.

A. – No hables de eso con nadie.

P. – ¿Y con quién lo voy a hablar? Aquí estamos más solas que la una.

A. – ¿Y si nos fuéramos a México?

P. – ¿Allí que hay?

A. – Hay un presidente que nos apoya.

P. – ¿Tiene bigote?

A. – No tiene. Allí hay artistas, gente revolucionaria.

P. – Si lo dices tú… Con la política no me meto.

A. – Lola, tenemos que irnos, están disparando…

P. – ¿Me enseñas a manejar un fusil?

A. – ¿Quieres matar a los de enfrente?

P. – Si dices que los fascistas son malos, te creo.

A – Son asesinos, matan a gente inocente. Piensa en Guernica, en Madrid…

P- En la cama me parecían buenos…

A- La cama no es todo…

P- Puntos de vista… Ven aquí, déjate acariciar.

A- Me pones nerviosa. ¿Tienes un pitillo?

P. Todo lo que quieras… Relájate.

A. ¿Me enseñas algo?

P. – ¿Qué te puedo enseñar?

A. – A sentirme libre…

P. – De eso no sé. Soy sólo puta, Lucía.

A. – Yo también quiero serlo.

P. – ¿Para sentirte libre?

A. – Sólo contigo.

P. – Entonces no eres puta.

A. – No me compliques las cosas. Vamos, pásame el fusil.

P. Quedémonos un ratito más. Te quiero, ¿sabes?.

A- Yo también te quiero.

P. ¿Desde cuándo?

A. Desde siempre…

P. – ¿Puedo ser puta y anarquista?

A. – ¡Claro que sí! . Cuidado Lola, están cerca. No quiero que te maten.

P. – E yo que quería vivir de amor…

A. – Eso también es amor…

P. – Si lo dices tú… Pásame las municiones, vámonos al frente.

A. – Con cuidado, amor.

P. ¿Sabes qué?. Me muero por tener una cama limpia, una bañera…

A. – ¿Nada más?

P. – Una puta que me enjabone y que luego me lleve a México.

  1. – Aquí la tienes. Nos vamos a morir de todas maneras, Lola.

P. – ¡Malditos piojos! ¡Son peores que los fascistas!

A- No bromees, ¡No hay nada peor que ellos!

P. ¿Por qué no me lo dijiste antes?

A. ¿Qué?

P. ¡Qué me querías!

A- ¿Hubiera cambiado algo?

P- Hubiera cambiado todo…

A- Podemos colectivizar el amor…

P.- ¡Estoy harta de palabras!

A- ¡Scífff! ¡Se están acercando! Cuidado, Lola.

P. No quiero compartirte con nadie…

A- Ojalá salgamos vivas de este infierno…

P.- ¡Ojalá te enjabone esta misma noche!

A. – ¡Por la bañera, entonces!

P. – ¡Por la bañera!

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Mochila

Mochila

Post n°11 pubblicato il 24 Febbraio 2009 da viajera67

Viaje hacia el norte.

Miro una mochila vacía al lado del escritorio, todavía no he ordenado la ropa sucia, los regalos, los granitos de arena que salen desde los bolsillos. No me acostumbro a la idea de haber vuelto, quisiera buscar un hostal, un museo, un bus que me lleve lejos. Escuchar la voz del guerrillero que cruzó mi vida y me habló de poesía y revolución. Recuerdo su sonrisa en un barrio de Bogotá, su manera de leer e interpretar a Raúl Gómez Jattin. “Prometo no amarte eternamente, ni serte fiel hasta la muerte….” . Nos pareció la poesía más hermosa del mundo porque, me confesó, con tanto amar y sepultar, estaba harto de promesas. Yo también, pero por mucho menos.

Y en Quito conocí a la mujer que amaba a Octavia de Cádiz. Me hablaba sin parar de ella, yo no sabía que decirle. De Bryce recordaba sólo Martín Romaña, y ella juntaba Martín y Octavia. Y de tanto pasear y charlar, llgamos al museo de Guayasamín con sus cuadros dedicados a Víctor Jara, Salvador Allende y Rigoberta Menchú. El volcán esta vez no nos llenó de cenizas, pero otra vez sí. Fue cuando tuve miedo y pensé en la muerte asì que ella me indicó el camino para que me alejase de todas las cenizas que llovìan del cielo.  

A Pablo lo encontré sentado en el terminal de Maracaibo. Leía las venas abiertas de Galeano y estaba tan absorto en su lectura que no veìa las cucarachas que rodeaban su cuerpo. “?A qué hora pasa el bus?”, le pregunté, “Vos también a las playas de Taganga?”. Con su dejo argentino y sonrisa porteña alquilamos una casa frente a la playa con otro alemán que se nos juntó en el viaje. En la playa nadábamos hacia el norte. “Allí estará Cuba”, me decía. “allí quiero ir”. De repente se calló y me dijo: “ Estoy aquí para olvidarlo, pero no puedo. Tenía cinco años cuando los milicos entraron a mi casa y se llevaron a mis padres. Fue la última vez que los vi.”.

Subí a otro bus y en Caracas me perdí entre los barrios populares con Berta, del grupo “Manuelita Sáenz”. “Defenderemos a Chávez y a la revolución, cueste lo que cueste.” Me decía. “Qué te empuja a hacerlo?. “Mira, yo no había terminado la secundaria y ahora estudio sociología en la Universidad. Te parece poco? ”. “Háblame de la oposición”. “Hace un par de años la oligarquía organizó un paro petrolero, querían derrumbar al gobierno. No había luz, calefacción, nada de nada. Vi a una mujer en la tele, de unos ochenta años. Para comer quemaba todos los muebles de su casa: las sillas, el armario, su misma cama. Si hace falta quemo toda mi ropa, declaró, quiero un cambio por este país. Fue el símbolo de nuestra lucha. Y el pueblo ganó. Ahora en cada barrio hay un medico cubano que nos asiste noche y día. El salario mínimo ha subido, podemos comprar arroz, carne y harina en los mercados populares. Cuando dieron el golpe bajamos a la calle, queríamos saber donde estaba el presidente. No podía haber firmado su renuncia dejando el país en mano a la oligarquía. Mira: aquí lo tengo, en la cartera, está al lado de mis hijos. Si no hay futuro para ellos, no hay futuro para nadie.”.  

La mochila sigue en el suelo, lista para otra aventura. Ahora bajo hacia el sur, de regreso a casa.

En Zorritos, en el norte del Perú, volví a ver a Ethel, una muchacha de 24 años que había conocido años atrás. En aquel entonces ella tenía 20 y se iba a casar con un pescador. Su vida estaba marcada como la de su madre, y de todas las mujeres del pueblo. Yo le hablaba de amor libre, de independencia y libertad. Aplazó la fecha de su boda, decidió vivir sola, ganarse la vida con su plata y su trabajo. Se construyó una casita a la orilla del mar, allí hizo su negocio. Ha plantado palmeras, ahora está arreglando el baño, le falta comprar un tanque, quiere construir casitas para alquilarlas a turistas. Me encantó su techo de madera, su mirada hacia el mar y su libertad juvenil. Me llevé un trozo de su vida hasta mi cuarto, y lo busco cada vez que pierdo la esperanza en un cambio revolucionario en el país andino en el que vivo.  

Todavía no puedo ordenar mis cosas, quisiera abrir la puerta y lanzarme una y otra vez a buscar el mar de Taganga, charlar con Pablo, buscar a Nelsa por las calles de Cartagena, descubrir Popayán, Santa Cruz y Ciudad de México. Deseo que en mi vida todo sea inmenso como las esculturas de Botero, quiero pasear por los rincones más perdidos del barrio de la Candelaria, visitar las casas de Manuelita en Quito, Lima y Bogotá. Quiero que todo siga desordenado, como lo fue mi viaje, y como sigue anunciándose mi vida.

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Margarita

Margarita

Post n°13 pubblicato il 26 Febbraio 2009 da viajera67

Margarita.

Me la encontré sentada en un campo de margaritas. “Amore, ¿qué haces?”. “Te quiero, no te quiero. Te llamo, no te llamo…”. “¡Amore!. “No me interrumpas, por favor, ¡Qué estoy muy ocupada! Te quiero, no te quiero…”. “¿Qué es este montón de hojas?”. “Te llamo, no la llamo…”. “Tesoro, ¿Desde cuánto estás aquí?”. “¡Desde hace un par de día, me parece!”. “¿Un par de día? ¡Te vi aquí la semana pasada!”. “La semana pasada me hice un lío. Tuve que empezar desde cero. Te quiero, no te quiero…”. “¡Amore!, ¿Con quién hablas?”. ¡No me interrumpas! Te llamo, no te llamo…”. “¿Cuándo podemos tomarnos un café juntas?”. “¡No lo sé! ¡Tengo mucho trabajo!. ¡Tengo que acabar este campo!”. “¿Este campo?”. “¡Lo de enfrente lo terminé la semana pasada!”. ”¿Y qué tal?”. “¡Ya no me acuerdo!.¡Tendría que consultarlo otra vez!”. ¡Noooo! ¡Déjalo por favor!¡Vámonos a dar un paseo!”. “Te quiero, no te quiero…”. “¡Tesoro!”. “¿Sí?”. “¡Soy yo!¡Dime que sientes!”. “Te llamo, no te llamo…”. “Tesoro, he quedado con una amiga”. “¡No me interrumpas!”. “¡Ha ganado el Partido Popular!”. “Te llamo, no te llamo…”. “Tesoro, te quiero como a una idiota”. “Te quiero, no te quiero…”. “Tesoro, estoy volviéndome loca”. “Te llamo, no te llamo…”. “Voy a darme un paseo”. “¡No me pises el campo!”. “¿Me llamarás?”. “Te llamo, no te llamo…”. “¡Tengo qué acabar con este campo!”. “¿Y luego?”.”¡Empezaré con el otro!. ¡No me metas prisa!”. “¡Tesoro, podríamos irnos a la playa!”. “¡No puedo, tengo mucho trabajo!”. “¡Te quiero amore mío!”. “¡Yo también!,¿Qué crees?.

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Monogamilandia.

Monogamilandia

Post n°14 pubblicato il 26 Febbraio 2009 da viajera67

Monogamilandia.

La otra noche quedé con una amiga y la vi, desde lejos, que se despedía de una mujer que no era su novia. Cuando se me acercó no le dije nada, porque esperaba que me comentara algo, pero se portó conmigo como si no le estuviera pasando nada, aunque nunca sus ojos estuvieron tan radiantes y llenos de vida.

Llevo cuatro años en el Perú y todavía no me he acostumbrado a entender como funcionan las relaciones entre lesbianas. Aquí no se pueden ni mencionar las relaciones abiertas,  circulares, cilíndrica y esféricas…todo huele a monogamia y a hipocresía. Discutir de estos temas con mis amigas, las “emparejadas”, las “enjauladas”, es impresa titánicas. Cuando están solas te parecen liberales, mujeres deseosas de experimentar, de saber qué se siente cuando el cuerpo y la mente no van por el mismo camino. Pero cuando se les acerca su pareja cambian de argumento, de golpe se vuelven segurísimas: ¿el deseo corporal, intelectual, físico y afectivo? . ¡Todo lo encarna mi novia! ¿Cómo nos conocimos? Y empiezan el cuento que ya escuchaste mil veces. Quieres escaparte pero no puedes, tienes ganas de decirle: “¡pero si te vi la otra noche con la otra, y me pareciste la mujer más feliz del mundo!.  

Esto me pasa por ser una mujer europea, “fría”, calculadora y liberal. Acostumbradas a soportar cuernos desde la cuna, nosotras podemos quedar con la amiga de la amante de la novia, todas juntas alrededor de una mesa, a ver quién es quién y hacia donde vamos. Extraño mucho estos tipos de relaciones, no sé que daría para que me saquen la vuelta y me lo digan, para que me presenten la mujer de la discordia, la que me quitó el sueño, la que mi pareja deseó. Aquí una mujer lleva años sin conocer a la persona con la que despierta y programa sus vacaciones.  ¿Está realmente conmigo cuando me acaricia la cara? La duda te tormenta hasta que un día te comentan que lleva meses saliendo con “otra”. Le hablas, de golpe se rompe la relación, y nunca más la vuelves a ver.

Porqué, claro, para que no le pase lo que te pasó, la “otra” la tiene encerrada en su mundo de fantasías. Nunca sale sola, si la llamas para tomarte un café, ella piensa cosas raras,  te comenta orgullosa que su novia no le permite estos encuentros libertinos. Una noche te busca y te sorprendes, tienes ganas de verla y de abrazarla. Pero te llama sólo porque quiere que la “otra” escuche que la historia que tuvo contigo se acabó. Esto ya quedaba claro, ¿para qué remarcarlo?.Y te la imaginas a punto de firmar un tratado de divorcio en plena regla.

Tal vez te equivocaste en todo, incluso de continente. Una amiga llama América Latina, “monogamilandia”. Claro, ella vive en Madrid donde entre matrimonio,  relaciones libres y parejas de hecho, nos llevan siglos de distancia. Pero algo podríamos hacer también en esta parte del mundo, ¿qué les parece?

Me acaban de pedir que escriba algo sobre la sexualidad entre mujeres, y no sé por dónde empezar. Aquí el problema no es tanto tener una amante o a una novia, sino establecer una relación madura. Acabo de conocer a una mujer que me dice, durante nuestra primera cita,  que soy el amor de su vida. Una persona sana de mente escaparía de esta jaula, ¿Tantos rollos para echarse un polvo?, dirían mis amigas las poligámicas de Madrid. Pero si le digo esto es ella quien se escapa, y con todo el esfuerzo que hice para que viniera a verme, le pongo el candado al cuello, y tiro la llave al mar. 

Col tiempo todas estas actitudes pasan factura, en “monogamilandia” las cosas no son tan claras como aparecen. Sueñas con tus viejas amigas y amantes, y con tu vida anterior. Un día conoces a otra, quedas con ella, y te sientes culpable. Pero no se lo comentas a nadie porque la traición es pecado mortal. Vives una doble vida, luego una triple, y finalmente una infinidades de vidas paralelas. Es una ciudad tan grande que te permite mantener el juego durante meses. Pero un día quedas con una amiga, ella te ve con la “otra”, y sigues mintiendo porque ya no te fías de nadie.

A todo esto a mí me queda el recuerdo de una mujer que, despidiéndote, hizo brillar tus ojos.  ¿Estuviste en la cama con ella toda la tarde?, ¿Cuándo enfrentarás a tu novia? . No hay quien pueda parar una gran pasión, ni siquiera la cruz de la Opus que besamos en semana santa. Quisiera lanzar una campaña para tirar al mar todos los candados, las llaves y  las novias del mundo. Si alguien se anima y me lleva a la orilla del mar, yo encantada de recibir un empujoncito, de abandonar  monogamilandia, y de ver que hay al otro lado del mundo. ¿Te animas?

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