Càrcel de Tumbes. (IV)

En la carcel de Tumbes.

Post n°4 pubblicato il 22 Febbraio 2009 da viajera67

 IV. Un pomeriggio il postino mi consegno’ una lettera: mi invitavano a partecipare ad un gruppo di studio della Commissione della Verità e della Riconciliazione Nazionale. Era un progetto che aveva creato il governo di transizione di Valentin Paniagua, perché tutti i cittadini potessero denunciare gli abusi subiti sia da parte dello Stato, che da parte dei gruppi armati. Ovviamente era un progetto ambizioso. In America Latina e’ complicato parlare di libertà, democrazia, e di rispetto dei diritti umani.

Nel 2001 l’ex dittatore Alberto Fujimori aveva dato le dimissioni via fax, quando era in viaggio verso l’oriente, e si era rifugiato in Giappone. Alessandro Toledo era divenuto presidente di un paese che ritornava alla democrazia dopo vent’anni di guerra civile, con innumerevoli colpi di stato e con una situazione economica devastante. Il paese attendeva la svolta da un uomo che si presentava vestito da inca, rivendicando le sue radici meticce e popolari.

Alessandro Toledo aveva realizzato una famosa marcia di protesta, chiamata “de los cuatro suyos”, contribuendo con essa alla caduta della dittatura Vladimiro-Fujimorista. La gente gli credeva perché parlava e vestiva come loro. Durante il periodo di Toledo, quindi, la Commissione della Verità doveva tirar fuori due decadi di violenza. Per farne cosa, nessuno lo sapeva.

Furono organizzati singolari tavoli di discussione. Gomito a gomito sedevano le vittime della violenza, gli artefici della stessa, e chi aveva il compito di “ri-conciliare”. C’era un livello di tensione tale, da spaccare l’aria. Il presidente della Corte non sapeva più a che santo appellarsi. Quando le forze dell’ordine prendevano la parola i familiari delle vittime gli urlavano contro: torturatori, assassini, mercenari al servizio dello Stato. Insomma: roba da matti!

Dopo una settimana di lavori, eravamo tutti moralmente a pezzi. Venivano descritte minuziosamente le torture realizzate sia da parte dei senderisti, che da parte dei “comuneros” e delle forze dell’ordine. Fu in quell’occasione che gli avvocati della Commissione, mi proposero di raccogliere le testimonianze di cinque senderisti, o presunti tali, rinchiusi in carcere.

Mi affiancarono ad un avvocato e pensai, tristemente, che quel giorno c’era un sole meraviglioso, a Tumbes. Intervistammo la compagna di un ragazzo che era dentro da dieci anni, e a cui non avevano ancora confermato la sentenza. Un pentito lo aveva accusato di essere uno di Sendero, di aver fatto delle scritte propagandistiche sui muri, di aver distribuito dei volantini. La polizia, incappucciata, gli era piombata in casa, e lo aveva torturato, oltre che arrestato. Anni dopo il pentito si era ri-pentito, dichiarando l’innocenza del giovane, e confessando di aver tirato fuori dei nomi a casaccio dal bagaglio della memoria. Si scusò per non esser stato capace di sopportare la tortura.

Il pentito fu liberato subito dopo, ma il giovane era rimasto ancora in prigione perché avrebbe potuto sollevare il caso dinanzi alla Corte Ibero-americana dei Diritti Umani, e chiedere un’indennità’ allo stato. “Non aveva compiuto neanche 18 anni, quando se lo portarono via” ci raccontò sua moglie, “arrivarono, distrussero tutto, temevo che violentassero anche me. Il peggio fu quello che avvenne dopo: il silenzio della gente, la paura, gli sguardi di chi pensava che ce la fossimo cercata”.

Era una guerra civile, e la regola era colpirne cento, per educarne dieci. A chi denunciavi le violenze subite.? Lo stato era artefice e complice di tanta violenza. In silenzio io e l’avvocato ci dirigemmo verso il carcere. “Di questo caso ti occupi tu, mi disse. Dato che sei straniera, puoi scrivere quello che senti davvero”. Mi ritrovai faccia a faccia con il detenuto, dopo aver ancora ascoltato la sua storia e gli chiesi: “tu cosa preferisci? Avviamo le pratiche per una denuncia,o chiediamo un indulto? ”. Proporrei un indulto”, mi rispose, “nessuno potrà più restituirmi gli anni che ho passato qui dentro. Mi pento. Mi pento di non aver fatto nulla, chiedo la Grazia al presidente della repubblica, e spero di uscire quanto prima. Se tu puoi far qualcosa, fallo, e grazie di tutto”.

Casi come questi, nei quali l’innocenza dell’accusato era cosi evidente, si risolvevano in poco tempo. Il fascicolo di Jose’ aveva una scritta grande: innocente. La commissione della Verità, come organo governativo, poteva arrivare là dove la burocrazia avrebbe tardato secoli. E i giudici incappucciati che avevano condannato tanti giovani innocenti, potevano rivoltarsi nelle toghe. La giustizia, a volte, se pur tardi, arriva persino in luoghi sperduti come Tumbes. Se può chiamarsi giustizia liberare un innocente dopo dieci anni di galera.

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