Vida en Tumbes.(III)

Vida en Tumbes.

Post n°3 pubblicato il 22 Febbraio 2009 da viajera67

 III. Dopo un paio di mesi trascorsi in relax a guardare il mare, decisi di ritornare in città. A Tumbes faceva molto caldo, ma almeno la vita non finiva alle sette di sera. Ero stufa di leggere libri e di parlare con i pesci. Cercai a lungo un posto dove abitare e infine trovai una casa immensa. Ma grande- grande, tipo otto stanze, tre bagni, un giardino, la terrazza, una cucina enorme. Era bellissima ma fin troppo grande e costosa per me. La proprietaria me ne propose un’altra più piccola, che affittava a 150 dollari. La fermai subito, e le dissi che sarei andata a viverci la settimana successiva.

La settimana seguente come deciso tornai da lei per trasferirmi nella nuova casa ma la proprietaria, nonostante gli accordi, l’aveva già affittata ad altri inquilini, e mi propose, per lo stesso prezzo, la grande casa. Accettai subito e per un attimo mi sentii una matrona. La mia casa era stata la sede di una scuola, di un ospedale e persino del consolato dell’Ecuador. Era tutto molto bello, anche troppo direi, ma: che me ne facevo io , di tanto spazio?? Solo per metterla a posto ci volevano tanti soldi ed era così grande che di notte, la gente che passava in strada, produceva degli echi che mi facevano sobbalzare nel sonno. Mi sentivo un fantasma, ma una soluzione c’era: riempirla di gente.

Fu così che mi lanciai a caccia di carne umana: vidi un vialone pieno di artigiani e partii alla carica. Comprai dei fiori, dei soprammobili e degli incensi. Feci amicizia con la donna che li vendeva. Si chiamava Carmen, era di Trujillo, buddista, e dormiva con suo marito in albergo. Faceva il caso mio.

La notte stessa eravamo tutti sotto lo stesso tetto, nella mega-casa di via Alfonso Ugarte: lei, suo marito, vari artigiani, persino dei turisti che erano a Tumbes di passaggio. Lo spazio non mancava. Bisognava solo comprare letti, armadi, ventilatori, sedie, divani, piatti, forchette, cucchiai, bicchieri. Una spesa e un investimento che rese felice anche il signore che vendeva mobili, all’angolo di casa. Quella notte, con gli ospiti, arrivarono anche dei bambini, e fu il regalo più bello: ci furono giochi, e corse in giardino; dormimmo felici, aspettando l’alba.

Qualche giorno dopo Santiago, il marito di Carmen, mi disse che c’era un gruppo di ragazzi che viveva per strada; erano tutti lustrascarpe, e stavano in una stanza senza luce, senza acqua, senza servizi igienici. Ma come fanno?, gli chiesi. Una signora li accoglie, ma vanno da lei solo per dormire. Si portano dei cartoni, e li utilizzano come materassi. Quando hanno bisogno di una doccia, si buttano nel fiume. Inutile fare altre domande. O mi muovevo, se avevo voglia di farlo, o giravo la testa da un’altra parte.

D’accordo, Santiago, gli dissi, ma: quanti sono?”. “Io ne farei venire cinque, sei al massimo, per vedere come si comportano. Bisogna abituarli ai ritmi della casa. Il resto lo decidi tu”. L’esperienza si stava rivelando interessante. C’era una disciplina tale, in casa, che faceva si che tutti facessero esattamente quello che ci si aspettava da loro: io riparavo porte e finestre, e mi occupavo della luce, dell’acqua e dell’affitto. Carmen organizzava i lavori in casa. C’era chi spazzava, chi cucinava, chi lavava i piatti. Perché non allargare il nostro gruppo ai ragazzi che vivevano in strada?

Io avevo una stanza grande, al primo piano, che dava al giardino. La porta era sempre aperta e, quando ero fuori per un viaggio, il mio letto era di chi lo occupava. Non posso ricordare la quantità di gente che ha circolato in casa. Con venti, trenta ragazzi in giro, avevamo creato un matriarcato sui generis. Dopo di me, in ordine d’importanza, cerano Carmen, Jenny e Carla.

L’organizzazione della casa era di questo tipo. Alle sei del mattino tutti i ragazzi si svegliavano, si facevano la doccia, e andavano a lavorare. Verso le undici qualcuno di loro arrivava con dei soldi e Carmen andava al mercato a comprare da mangiare. A turno c’era qualcuno che l’aiutava. Si organizzavano tavolate immense per il pranzo e per la cena. C’era la musica, la televisione, gente nuova che arrivava, qualcuno che condivideva un’esperienza o raccontava una storia.

Il sabato e la domenica, andavamo tutti insieme al mare. Era bello perché molti dei ragazzi non avevano mai vissuto un giorno di vacanza spensierato, tranquillo. Eravamo un gruppo molto originale. C’era solidarietà e si combatteva contro il razzismo penetrante. Io ero una docente universitaria, inviata dall’Istituto di Cultura italiana, avrei potuto godere dei privilegi associati al mio ruolo, e lottare per difenderli. Invece avevo scelto di vivere con tanti giovani che svolgevano lavori umili, senza neanche pensare di avere una colf in casa. Roba da non crederci, neanche all’altro capo del mondo!!

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