Pepa y Raquel

 

Pepa y Raquel


I

Finì di scrivere il suo ultimo articolo e tirò un sospiro di sollievo. Adesso, finalmente, poteva andare in vacanza. Spense il compiuter e si accese una sigaretta. L’ultima, si disse, del suo ultimo giorno di lavoro. Respirò forte. Il fumo inondò l’ufficio. Dove vado adesso? Si chiese, e con chi? Manolo le aveva proposto di andare con lui a Bankok. Ma lei non aveva voglia di viaggiare con Manolo. Avrebbe voluto un viaggio differente, una vita differente. Poteva andare all’aereoporto e salire sul primo aereo. Sola. Voleva viaggiare sola. Si ritrovò in macchina e si accese un’altra sigaretta. Non so proprio dove andare, pensò. Andiamo a mettere benzina, che qualche idea salterà fuori.


La stazione di servizio era deserta. Il servizio era automatico, scese dalla macchina e vide da lontano una ragazza che le si avvicinava. Pensò le chiedesse dei soldi. Non voleva parlare con nessuno e cercò di evitare il suo sguardo. «Va verso Parigi?». Lei si bloccò. «Parigi?» E si ricordò di Parigi. Lei, a Parigi, quando aveva ancora vent’anni. Lei, con la voglia di viaggiare e di conoscere il mondo. Era senza soldi, allora, ma sapeva di amare Parigi. «E ci vai in autostop?» «Sì». «Io viaggio sempre in autostop». «In autostop?». Questa é proprio matta da legare. «E che ci vai a farea Parigi?». «Vado a trovare degli amici. Li ho conosciuti in Polonia quest’estate. Volevo chiedeti se ci andavi anche tu». «Guarda io non so neppure dove andare, ma se devi andare a Parigi ti accompagno. Dai salta su, che partiamo per Parigi. Ti va?»



II

Le due donne si incontrarono l’anno successivo a Bankok. Questa volta, però, Manolo non c’era. Bankok di qua, Bankok di là. Manolo l’aveva stressata tutto l’inverno parlandole di Bankok. «E tu, dove sei stata?». «A Parigi». «A Parigi? Città trita e ritrita». Già. Cosa ne poteva sapere lui di Parigi.



Pensava a questo quando prese il volo per Bankok. Vado a Bankok. Voglio sentire il profumo del suo corpo dentro le lenzuola di Bankok. Si accese una sigaretta e respirò profondamente. «Parla inglese?», le chiese una coppia americana. «Sì». «Noi siamo stati in Colombia, in Giappone e in Bangladesh. Adesso andiamo a Bankok; anche lei..?» Ma lei già pensava al profumo del suo corpo dentro le lenzuola di Bankok. «E’ una giornalista? «Sì». «Ci avrei giurato. Io sono uno scrittore di libri gialli. Le vorrei regalare un mio libro. Vorrei una critica feroce fatta da una donna intelligente». Ma lei aveva solo voglia di amarla sotto le lenzuola di Bankok.


Lei l’attendeva all’aereoporto. Le si congelò lo stomaco. La baciò. «Morivo dalla voglia di te», le disse. I due coniugi americani la guardarono inorriditi. Non si erano resi conto di aver viaggiato con una pervertita. Eppure sembrava una donna colta, intelligente. Quando furono in camera d’albergo la spogliò dolcemente. Le baciò il seno e sentì i capezzoli che le si indurivano in bocca. La sua lingua scivolò giù, sempre più giù, ed i bottoni Levi’s liberarono la sua passione. «Prendimi amore, ho voglia di te». E le accarezza i capelli. Forte, sempre più forte, giù, sempre più giù, fino a sentire il profumo di Bankok che le scivolava tra le gambe.



III

A Bankok le università erano occupate. Gli studenti lottavano per un cambio di regime. I militari avevano preso il potere. C’era lo stato d’emergenza. Uomini in uniforme, armati sino ai denti, controllavano le strade della città. Furono svegliate, nel cuore della notte, da una raffica di mitra. Si affacciarono alla finestra. La polizia rincorreva un gruppo di giovani per la strada. Li incastrò in un vicolo cieco. Li picchiò violentemente con catene, spanghe e manganelli speciali. Il sangue colava giù dalla testa dei giovani studenti.


Raquel, la più giovane delle due, andò in bagno a vomitare lo schifo di quel regime militare che proteggeva il loro quartiere europeo. Poi impugnò con fermezza la sua Nikon e iniziò a scattare. «Scendo in piazza», disse a Pepa. «Voglio stare con gli studenti». Pepa provò una fitta al cuore. «Non proteggermi, amore. Io non resto qui a guardare». Il giorno dopo la fu a cercare alla centrale di polizia. Sanguinava ancora dalla tempia. Pepa pagò la cauzione e poté riabbracciarla. «Santo cielo», le disse, «ti ho cercata dappertutto. Ero in pena per te». «Tre studenti sono morti questa notte durante gli scontri, e molti di loro sono stati picchiati e torturati selvaggiamente. Scriverai dei quello che é successo, vero?».



Dopo la doccia si sentirono entrambe meglio. Abbracciami forte, amore, ho voglia di te. Bussarono alla porta. «Chi sarà a quest’ora?» . Dovete scendere giù per un controllo. «Lei, signorina Raquel W. ha già dei precedenti penali per manifestazione non autorizzata, offesa al Pubblico Ufficiale e blocco stradale. Le consigliamo di agire con prudenza. La invitiamo cordialmente a lasciare quanto prima il nostro paese». «Ma siamo in vacanza. Io sono una giornalista. Andrò immediatamente in Ambasciata». «Vada pure dove le pare, nos da lo mismo».


«Tesoro, pensavo a quello che ti diceva l’ufficiale governativo quando parlava di blocchi stradali, di manifestazioni non autorizzate». «…e di espropri proletari, di occupazioni di case sfitte, di denunce contro le carceri di stato. E che?» Volevo chiederti, non era la prima volta che finivi dentro, vero?» «No. Non era la prima volta». «Credo che dobbiamo parlare dell’argomento». «Certo, ma adesso andiamo a cena fuori. Ho voglia di scoprire Bankok con il sapore delle tue labbra».



I due coniugi americani le si avvicinarono sorridenti. «Avete sentito degli scontri di questa notte? E’ stato or-ri-bi-le. Non siamo riusciti a chiudere occhio. Per fortuna adesso la situazione é sotto controllo. La polizia ci ha detto che i responsabili degli incidenti non erano neppure degli studenti. Erano dei provocatori che si erano infiltrati per creare disordini. «Madonna! Questi credono ancora nella Befana!». «Befana? Y don’t understand what you say». «Meglio! Digli di tornarsene a Yankilandia». «Rimarrete qui in vacanza fino a dicembre?». «No, ripartiamo subito. Abbbiamo voglia di cambiare aria e di cambiare gente».



IV

Pepa Madrid trovò la faccia di Manolo dove l’aveva lasciata due settimane prima. «¿Que tal Bankok? Te ha gustato Bankok?». «Sì». «Meravigliosa, stupenda Bankok». So che ci sono stati dei disordini provocati dagli studenti». «Sì, lo sai Manolo come sono gli studenti…». E si ricordò dei suoi anni passati all’Università, dei suoi esami superati brillantemente alla Scuola Ufficiale di Giornalismo. Ma non poteva dimenticare quelle facce ricoperte di sangue degli studenti di Bankok. La lotta, la dignità e la rabbia degli studenti di Bankok. «No, Manolo. Gli studenti non sono tutti uguali. Credo che scriverò un articolo su Bankok. La mia donna mi ha lasciata ma io scriverò un articolo sugli studenti di Bankok». «Che donna? Madonna santa, Pepa. Che diamine ti é successo a Bankok?».



Tornando a casa c’era una lettera di Raquel che l’attendeva: «Ciao amore, sono in Italia e penso a te. Mi manchi tanto. Qui succedono delle cose incredibili e vorrei tu fossi qui per vederle. Le università di tutto il paese sono occupate! No me lo puedo creer! Sono a Venezia, alla facoltà di Architettura, e gli studenti stanno organizzando un sit-in contro la privatizzazione dell’università, il numero chiuso, l’aumento delle tasse. C’é uno stato di euforia generale. Si dorme poco, si parla tanto, si mangia e si beve a tutte le ore del giorno e della notte. E si fa politica de verdad. Si scrivono volantini, si organizzano manifestazioni, dibattiti, conferenze, corsi didattici alternativi. E a Bologna, a Bologna dicono che succedono cose dell’altro mondo. Vorrei andare a Bologna tesoro, e vorrei andarci con te. Vorrei svegliarmi con te nell’Università occupata. Vorrei seguire con te i dibattiti politici, vorrei capire con te che sta succedendo qui in Italia. Perché non ci incontriamo a Bologna tra qualche giorno? Pensaci amore. Pensaci e fammi sapere».



Pepa non sapeva che fare. Non sapeva neppure cosa fosse un’università occupata. Lei non aveva mai pensato ad occupare l’università in tutti i suoi anni di studio. Aveva quella stessa notte una riunione di lavoro con i suoi colleghi. Pensò di parlare con Felipe, con l’unico del suo gruppo che si occupava di politica. In redazione lo chiamavano ML. Era stato arrestato, durante il franchismo, per propaganda di materiale sovversivo. Il direttore del giornale l’aveva relegato alla pagina sportiva. Qualsiasi cosa Felipe scrivesse suscitava passioni e polemiche. La gente voleva parlare di Diana d’Inghilterra, delle amanti di Clinton, dei viaggi a Cancun. La gente evitava Felipe. Ma neppure lei l’aveva mai invitato a casa sua a prendere un caffé. E non gli aveva mai proposto di andare a cinema, o a teatro, o a un museo. Ma adesso aveva voglia di farlo.



«Ciao Felipe». «Ciao Pepa, que tal?». «Que tal tu trabajo?». «Bien, il Real Madrid vuole vincere la Coppa Europa». «Felipe». «Sì?». «So che in Italia le università sono occupate» «Sì. In Italia gli studenti stanno lottando contro una legge proposta dal ministro Ruberti che prevede la privatizzazione dell’Università. Ho letto giusto oggi che ci sono stati degli scontri con la polizia alla facoltà di Psicologia di Padova. Ci sono stati vari arresti, vari feriti». «Felipe». «Si?». «Padova é vicino Venezia, verdad?». «Sì, Pepa. Padova é l’Università più vicina a Venezia» «O Madonna santissima, lo sapevo!». «¿Che te pasa Pepa? Volevi andare a Venezia al festival del cinema?». «No Felipe, a Venezia probabilmente ci manderanno Manolo. E’ che c’é una mia amica, lì a Venezia». «Vedi che la polizia non carica i turisti nelle gondole». «Lo so, Felipe, però la mia amica dorme nelle università occupate». «Non ci posso credere!». «Devi crederci, Felipe!». «Pepa, sai che il movimento degli studenti italiani si chiama Pantera?».«Pantera?». «Qualche tempo fa una pantera scappò da uno zoo di Roma. Voleva essere libera, la polizia ancora non é riuscita a catturarla».



«Este es el contestador de… Ciao amore, sono io. Ti chiamo dalla facoltà di Scienze Politiche di Padova. Questo pomeriggio ci sono stati degli incidenti. La polizia é entrata nell’Università ed ha caricato bestialmente gli studenti. Domani ci sarà una manifestazione. Scusa il casino, sono nel bel mezzo di una festa regge. Ti chiamo più tardi tesoro»



Il giorno dopo Pepa era felice di recarsi al lavoro. Pensò agli operai rinchiusi in fabbrica, ai minatori in miniera, alle donne segregate in casa. Pensò alla voce di Felipe. Alla sua vita, alla sua sensibilità. Pensò di avercelo avuto sempre accanto e di non averlo visto sino a quel giorno in cui le aveva parlato della Pantera. «Felipe» «Si?» «Sai una cosa?» «Che?» «Oggi venendo al lavoro ho pensato ad una ragazza che pulisce le scale nel mio palazzo. E’una ragazza giovane. Avrà sedici, diciassette anni e non so neppure come si chiama. Oggi ho pensato, per la prima volta in vita mia, che non é giusto che una ragazza tanto giovane non vada a scuola, non vada a teatro, non esca con gli amici. Non é giusto, Felipe, non é giusto» «Già» «Ed ho pensato che non so neppure come si chiama. La incontro tutti i giorni per le scale e non so neppure come si chiama, ti rendi conto? Ho pensato ai miei sedici,diciassette anni. Ho pensato a mio padre, che voleva diventassi medico e a mia madre che voleva fossi avvocato. Quando mi iscrissi alla facoltà di giornalismo mi sembrava di aver fatto la rivoluzione. Mi sembrava che avessi avuto il coraggio di scegliere la mia vita. Invece la mia vita era già stata scelta dal quartiere in cui ero nata, dalla piscina della casa dei miei genitori». «Già”. «Felipe» «Si?» «Non so da dove iniziare». «Inizia dalla tua amica. Inizia col chiederle il suo nome. Il resto verrà da sé».



«Pepa?» «Si?» «Ciao amore, sono Raquel. Sono a Bologna. E’ bellissima, dovresti vederla. Ci sono portici, e bici, e studenti. Ci sono vari collettivi politici. Un gruppo di lesbiche e femministe vorrebbe occupare un centro sociale per sole donne». «Amore?» «Si?» «Quando vieni a Madrid vorrei presentarti dei miei nuovi amici. Uno si chiama Felipe. E’ un compagno, lavora in redazione con me, è un tipo in gamba. L’altra si chiama Marta. Pulisce con sua madre le scale del mio palazzo. Ha ventun anni. Le piacciono i Rolling-stone».


V

Qualche giorno dopo Raquel a Bologna passeggiava sotto i portici e stazionava in Piazza Verdi con i suoi nuovi amici. Piazza Verdi era la piazza dei compagni, la piazza delle lotte degli studenti. Nel ‘77 la polizia vi era entrata con i carri armati. La mensa centrale era occupata. Gli studenti distribuivano lasagne e tortellini. Una ragazza col megafono parlava di diritto allo studio. Era alta. Aveva occhi verdi i capelli ricci. Si chiamava Giulia. Era di Roma e faceva teatro. Ed era bella, molto bella. Raquel non riusciva a toglierle gli occhi di dosso. Voleva conoscerla. Le si avvicinò sorridente. «E’ da molto che siete in occupazione?». «Sì. La mensa è occupata da una settimana ma le università sono occupate da vari mesi. Senti, tra un po’ c’é la riunione dei compagni. Se hai voglia possiamo prendere un caffé al Piccolo tra dieci minuti, ti va?».



Raquel non stava più nella pelle. Avrebbe preso un caffé con Giulia. Avrebbe preso un caffè con Giulia, non riusciva a pensare ad altro. Giulia era la politica fatta persona, le parlò di Giorgiana Masi, di Mara Cagol e delle lotta dei compagni. «Senti», le disse, «tra qualche giorno occupiamo un posto nuovo, è qui in via Zamboni, al 36. Ci vogliamo fare una biblioteca, una sala studio, un posto in cui riunirci, vogliamo studiare, far teatro, creare una cultura politica differente».



Il giorno dopo le due ragazze scesero in piazza a cercare i compagni. Piazza Verdi era assediata dalla polizia. Gli studenti si erano rinchiusi nelle mense, nelle università. Un’ambulanza stazionava al lato della mensa. Una giornalista spagnola era stata ferita durante gli scontri. Si chiamava Pepa. Raquel corse a cercarla. Passarono la notte al 36 occupato. Studenti del Dams, e di Scienze Politiche coloravano le mura della facoltà. Si rideva, si scherzava. C’era chi portava del vino, chi cantava in coro, chi suonava la chitarra. Giulia era in riunione con i compagni, scriveva volantini e organizzava il servizio d’ordine. Pepa prendeva nota, si ritrovò emozionata come al suo primo giorno di scuola, finalmente sapeva cos’era un’ università occupata, finalmente lo sapeva!



Prese un pennarello e scrisse sopra i muri una poesia di Cortazar: «Tocco la tua bocca, con il dito tocco il bordo della tua bocca, la disegno come se uscisse dalla mia mano, come se per la prima volta la tua bocca si schiudesse, e mi basta socchiudere gli occhi per disfare tutto e ricominciare d’accapo. Riproduco ogni volta la bocca che desidero, la bocca che la mia mano sceglie con solenne libertà e che per un caso che non voglio comprendere coincide esattamente con la tua».



Pepa aveva appreso che i muri colorati erano la forza del movimenento e che dormire nell’università occupata era il meglio che le fosse capitato in tutta la sua vita. Quella scritta rimase sui muri del ‘36 fino al giorno in cui uomini in uniforme segnarono la fine di un’esperienza e di un sogno politico collettivo. Adesso le mura del ‘36 sono bianche. Gli studenti mostrano tesserini magnetici per studiare in biblioteca e per discutere sulle guerre puniche e le conquiste normanne, ma Giulia, Raquel e Pepa ricordano ancora di quei giorni passati al ‘36, quelle notti spese a lottare e a creare uno stile di vita differente. Podran cortar todas las flores, pero no detendràn la primavera. E con una nikon, un megafono e una laptop mi dicono che se ne vanno ancora in giro ad esplorare il mondo."Podràn cortar todas las flores, pero no detendràn la primavera".


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