Viaje a Lima (I).

Descubriendo Latino América

Post n°1 pubblicato il 22 Febbraio 2009 da viajera67

Passeggiando per Milano penso ai miei anni vissuti in America Latina. Cosa mi spinse ad arrivare sin là e cosa mi ri-spinse, anni dopo, a ritornare da queste parti. Ci sono cose che ho dimenticato e cose che la mia memoria custodirà per sempre. I viaggi, i volti della gente, la sofferenza toccata con mano. Tante domande alle quali non sono ancora capace di rispondere.

Ricordo la mia prima notte passata a Lima, nel quartiere dove, anni prima, una bomba di “Sendero” aveva scosso la città. Ero ospite a casa di un amico; andavo in cucina a fumare, e a guardare il mare. Lui mi parlava di lavoro, dell’organizzazione dei corsi che avremmo dovuto tenere all’Università’. Io ero destinata ad una città del nord , vicino all’equatore, dove si mangiava bene, si dormiva poco, e faceva un caldo infernale. Lo ascoltavo attonita: dove andrai tu, mi diceva, c’è’ pure una riserva naturale piena di coccodrilli; ti prendi una barchetta, i pescatori ti portano nelle isole, ti mangi un risotto, ti rilassi, e poi loro ti vengono a prendere. Tutto per due euro, due euro cinquanta, compresa la visita ai coccodrilli.

Ai coccodrilli???? Quello era il posto in cui avrei dovuto organizzare i miei primi corsi di letteratura, e parlare di Moravia, Italo Svevo e di Giosuè Carducci. I miei ragazzi sarebbero venuti a lezione con le barchette? E cosa avrebbero indossato? Avevo un’idea molto vaga del Perù. Pensavo che Lima fosse sulle Ande, che la gente portasse gonnellini fatti di paglia, che andasse a caccia con le frecce. Ma non mi sbagliavo poi di tanto: il Perù, tre volte più grande dell’Italia, con i suoi 27-28 milioni di abitanti, ha una densità di popolazione bassissima. La natura ti avvolge come una piovra, e la fantasia galoppa a ritmi sovrumani.

La moglie del mio amico voleva ritornare in Italia. Non ce la faceva più, diceva: una figlia, poche amiche, troppo “machismo”. Iniziamo bene, pensavo. L’educazione pubblica fa schifo, negli ospedali e’ meglio non entrarci, il salario minimo ti basta appena per comprarti le sigarette. Troppe ingiustizie, troppe differenze sociali, una classe politica indifferente, complice, e parassitaria. Una parte di me già voleva tornare in Italia. Avevo quasi 35 anni, la maggior parte dei miei amici stava già comprando casa e pagando il mutuo. Io mi vedevo, in prospettiva, un futuro ancora più precario di quello che mi stavo lasciando alle spalle. Ma volevo toccare con mano quello che, sentivo, mi stava cambiando per sempre la vita.

Del resto c’è chi va a fare un master negli Stati Uniti, si specializza in economia, mette su un’impresa, e diventa ricco. C’è poi chi, avendo sempre vissuto una vita precaria, cerca la stabilità: fa un concorso, lo vince, si sposa. Io volevo arricchirmi dentro, remare controcorrente, capire dove erano le Ande, parlare con i bimbi che vivono per strada, fottermene di quello che diceva la gente. Se il sud del mondo rappresenta l’inferno, era lì che volevo andare.

Subito dopo il mio arrivo, andai a stringere la mano al direttore dell’Istituto di Cultura italiana, che mi aveva contattata. Gli parlai con entusiasmo del mio lavoro e lui mi guardò come se fossi un animale in via di estinzione. Mi sembrò un uomo triste, e mi venne voglia di abbracciarlo. Mi disse “in bocca al lupo”, ma era come se pensasse ad altro. Capii, anni dopo, che la maggior parte dei funzionari europei all’estero guadagna circa dieci mila euro al mese. Da lì la tristezza dei suoi occhi, pensai. Come si può vivere in un posto così, pensai, e non sentirsi complici dal di dentro?

Lima: città che concentra circa dieci milioni di abitanti, la maggior parte dei quali ex contadini scesi a valle dopo venti anni di guerra civile tra lo Stato ed i gruppi guerriglieri, tra cui Sendero, di ispirazione maoista, e l’MRTA (movimento rivoluzionario tupac-amaru). Una guerra che aveva prodotto circa sessantanovemila, tra morti e scomparsi, tra gli anni ottanta, e il duemila. Peggio del Cile e dell’Argentina, in termini numerici. Ma noi, in Europa, conoscevamo piuttosto gli orrori di Santiago e di Buenos Aires, perché lì lo Stato aveva eliminato la classe media, e la classe media conta. In Perù, secondo la Commissione della Verità, la maggior parte delle vittime era di origine contadina, la cui lingua principale non era neppure lo spagnolo, ma il checua o l’aymara. Esclusi tra gli esclusi, erano stati colpiti da tutti: dallo Stato, dai gruppi armati, e da quelli paramilitari.

Il più famoso Squadrone della morte si chiamava “Gruppo Collina”, dal nome di un poliziotto ucciso. Era stato istituito e diretto, durante la dittatura di Alberto Fujimori, da Martin Rivas e da Vladimiro Montesino, funzionari del SIN, servizio di intelligenza nazionale. Il Gruppo Collina era più spietato dei gruppi terroristi che diceva di combattere, ed era specializzato nell’uccisione di studenti, sindacalisti, docenti universitari ed oppositori di regime. Agivano incappucciati, e in nome dello Stato.

Pensavo a queste cose mentre osservavo il volto della gente, la bellezza delle rughe contadine piene di umanità. Tanti bambini per strada, senza futuro, e nessuno che controlla il loro stato di salute. Passa un bus e afferri con mano lo smog che esce dalle marmitte. Cerchi di attraversare la strada, e gli autisti giocano ad investirti. Non sai a chi rivolgerti: non esistono leggi che fermino questo mostro sociale che nessuno controlla. I poliziotti sono pochi, per giunta mal pagati. I medici sono sempre in sciopero. I docenti universitari non ricevono neppure quello che gli spetta secondo contratto nazionale.

Così lasciai Lima, nella quale tornerò in seguito, e mi diressi verso il nord a mangiar pesce, a parlare di Moravia, e a visitare coccodrilli.

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