Pepa y Raquel

 

Pepa y Raquel


I

Finì di scrivere il suo ultimo articolo e tirò un sospiro di sollievo. Adesso, finalmente, poteva andare in vacanza. Spense il compiuter e si accese una sigaretta. L’ultima, si disse, del suo ultimo giorno di lavoro. Respirò forte. Il fumo inondò l’ufficio. Dove vado adesso? Si chiese, e con chi? Manolo le aveva proposto di andare con lui a Bankok. Ma lei non aveva voglia di viaggiare con Manolo. Avrebbe voluto un viaggio differente, una vita differente. Poteva andare all’aereoporto e salire sul primo aereo. Sola. Voleva viaggiare sola. Si ritrovò in macchina e si accese un’altra sigaretta. Non so proprio dove andare, pensò. Andiamo a mettere benzina, che qualche idea salterà fuori.


La stazione di servizio era deserta. Il servizio era automatico, scese dalla macchina e vide da lontano una ragazza che le si avvicinava. Pensò le chiedesse dei soldi. Non voleva parlare con nessuno e cercò di evitare il suo sguardo. «Va verso Parigi?». Lei si bloccò. «Parigi?» E si ricordò di Parigi. Lei, a Parigi, quando aveva ancora vent’anni. Lei, con la voglia di viaggiare e di conoscere il mondo. Era senza soldi, allora, ma sapeva di amare Parigi. «E ci vai in autostop?» «Sì». «Io viaggio sempre in autostop». «In autostop?». Questa é proprio matta da legare. «E che ci vai a farea Parigi?». «Vado a trovare degli amici. Li ho conosciuti in Polonia quest’estate. Volevo chiedeti se ci andavi anche tu». «Guarda io non so neppure dove andare, ma se devi andare a Parigi ti accompagno. Dai salta su, che partiamo per Parigi. Ti va?»



II

Le due donne si incontrarono l’anno successivo a Bankok. Questa volta, però, Manolo non c’era. Bankok di qua, Bankok di là. Manolo l’aveva stressata tutto l’inverno parlandole di Bankok. «E tu, dove sei stata?». «A Parigi». «A Parigi? Città trita e ritrita». Già. Cosa ne poteva sapere lui di Parigi.



Pensava a questo quando prese il volo per Bankok. Vado a Bankok. Voglio sentire il profumo del suo corpo dentro le lenzuola di Bankok. Si accese una sigaretta e respirò profondamente. «Parla inglese?», le chiese una coppia americana. «Sì». «Noi siamo stati in Colombia, in Giappone e in Bangladesh. Adesso andiamo a Bankok; anche lei..?» Ma lei già pensava al profumo del suo corpo dentro le lenzuola di Bankok. «E’ una giornalista? «Sì». «Ci avrei giurato. Io sono uno scrittore di libri gialli. Le vorrei regalare un mio libro. Vorrei una critica feroce fatta da una donna intelligente». Ma lei aveva solo voglia di amarla sotto le lenzuola di Bankok.


Lei l’attendeva all’aereoporto. Le si congelò lo stomaco. La baciò. «Morivo dalla voglia di te», le disse. I due coniugi americani la guardarono inorriditi. Non si erano resi conto di aver viaggiato con una pervertita. Eppure sembrava una donna colta, intelligente. Quando furono in camera d’albergo la spogliò dolcemente. Le baciò il seno e sentì i capezzoli che le si indurivano in bocca. La sua lingua scivolò giù, sempre più giù, ed i bottoni Levi’s liberarono la sua passione. «Prendimi amore, ho voglia di te». E le accarezza i capelli. Forte, sempre più forte, giù, sempre più giù, fino a sentire il profumo di Bankok che le scivolava tra le gambe.



III

A Bankok le università erano occupate. Gli studenti lottavano per un cambio di regime. I militari avevano preso il potere. C’era lo stato d’emergenza. Uomini in uniforme, armati sino ai denti, controllavano le strade della città. Furono svegliate, nel cuore della notte, da una raffica di mitra. Si affacciarono alla finestra. La polizia rincorreva un gruppo di giovani per la strada. Li incastrò in un vicolo cieco. Li picchiò violentemente con catene, spanghe e manganelli speciali. Il sangue colava giù dalla testa dei giovani studenti.


Raquel, la più giovane delle due, andò in bagno a vomitare lo schifo di quel regime militare che proteggeva il loro quartiere europeo. Poi impugnò con fermezza la sua Nikon e iniziò a scattare. «Scendo in piazza», disse a Pepa. «Voglio stare con gli studenti». Pepa provò una fitta al cuore. «Non proteggermi, amore. Io non resto qui a guardare». Il giorno dopo la fu a cercare alla centrale di polizia. Sanguinava ancora dalla tempia. Pepa pagò la cauzione e poté riabbracciarla. «Santo cielo», le disse, «ti ho cercata dappertutto. Ero in pena per te». «Tre studenti sono morti questa notte durante gli scontri, e molti di loro sono stati picchiati e torturati selvaggiamente. Scriverai dei quello che é successo, vero?».



Dopo la doccia si sentirono entrambe meglio. Abbracciami forte, amore, ho voglia di te. Bussarono alla porta. «Chi sarà a quest’ora?» . Dovete scendere giù per un controllo. «Lei, signorina Raquel W. ha già dei precedenti penali per manifestazione non autorizzata, offesa al Pubblico Ufficiale e blocco stradale. Le consigliamo di agire con prudenza. La invitiamo cordialmente a lasciare quanto prima il nostro paese». «Ma siamo in vacanza. Io sono una giornalista. Andrò immediatamente in Ambasciata». «Vada pure dove le pare, nos da lo mismo».


«Tesoro, pensavo a quello che ti diceva l’ufficiale governativo quando parlava di blocchi stradali, di manifestazioni non autorizzate». «…e di espropri proletari, di occupazioni di case sfitte, di denunce contro le carceri di stato. E che?» Volevo chiederti, non era la prima volta che finivi dentro, vero?» «No. Non era la prima volta». «Credo che dobbiamo parlare dell’argomento». «Certo, ma adesso andiamo a cena fuori. Ho voglia di scoprire Bankok con il sapore delle tue labbra».



I due coniugi americani le si avvicinarono sorridenti. «Avete sentito degli scontri di questa notte? E’ stato or-ri-bi-le. Non siamo riusciti a chiudere occhio. Per fortuna adesso la situazione é sotto controllo. La polizia ci ha detto che i responsabili degli incidenti non erano neppure degli studenti. Erano dei provocatori che si erano infiltrati per creare disordini. «Madonna! Questi credono ancora nella Befana!». «Befana? Y don’t understand what you say». «Meglio! Digli di tornarsene a Yankilandia». «Rimarrete qui in vacanza fino a dicembre?». «No, ripartiamo subito. Abbbiamo voglia di cambiare aria e di cambiare gente».



IV

Pepa Madrid trovò la faccia di Manolo dove l’aveva lasciata due settimane prima. «¿Que tal Bankok? Te ha gustato Bankok?». «Sì». «Meravigliosa, stupenda Bankok». So che ci sono stati dei disordini provocati dagli studenti». «Sì, lo sai Manolo come sono gli studenti…». E si ricordò dei suoi anni passati all’Università, dei suoi esami superati brillantemente alla Scuola Ufficiale di Giornalismo. Ma non poteva dimenticare quelle facce ricoperte di sangue degli studenti di Bankok. La lotta, la dignità e la rabbia degli studenti di Bankok. «No, Manolo. Gli studenti non sono tutti uguali. Credo che scriverò un articolo su Bankok. La mia donna mi ha lasciata ma io scriverò un articolo sugli studenti di Bankok». «Che donna? Madonna santa, Pepa. Che diamine ti é successo a Bankok?».



Tornando a casa c’era una lettera di Raquel che l’attendeva: «Ciao amore, sono in Italia e penso a te. Mi manchi tanto. Qui succedono delle cose incredibili e vorrei tu fossi qui per vederle. Le università di tutto il paese sono occupate! No me lo puedo creer! Sono a Venezia, alla facoltà di Architettura, e gli studenti stanno organizzando un sit-in contro la privatizzazione dell’università, il numero chiuso, l’aumento delle tasse. C’é uno stato di euforia generale. Si dorme poco, si parla tanto, si mangia e si beve a tutte le ore del giorno e della notte. E si fa politica de verdad. Si scrivono volantini, si organizzano manifestazioni, dibattiti, conferenze, corsi didattici alternativi. E a Bologna, a Bologna dicono che succedono cose dell’altro mondo. Vorrei andare a Bologna tesoro, e vorrei andarci con te. Vorrei svegliarmi con te nell’Università occupata. Vorrei seguire con te i dibattiti politici, vorrei capire con te che sta succedendo qui in Italia. Perché non ci incontriamo a Bologna tra qualche giorno? Pensaci amore. Pensaci e fammi sapere».



Pepa non sapeva che fare. Non sapeva neppure cosa fosse un’università occupata. Lei non aveva mai pensato ad occupare l’università in tutti i suoi anni di studio. Aveva quella stessa notte una riunione di lavoro con i suoi colleghi. Pensò di parlare con Felipe, con l’unico del suo gruppo che si occupava di politica. In redazione lo chiamavano ML. Era stato arrestato, durante il franchismo, per propaganda di materiale sovversivo. Il direttore del giornale l’aveva relegato alla pagina sportiva. Qualsiasi cosa Felipe scrivesse suscitava passioni e polemiche. La gente voleva parlare di Diana d’Inghilterra, delle amanti di Clinton, dei viaggi a Cancun. La gente evitava Felipe. Ma neppure lei l’aveva mai invitato a casa sua a prendere un caffé. E non gli aveva mai proposto di andare a cinema, o a teatro, o a un museo. Ma adesso aveva voglia di farlo.



«Ciao Felipe». «Ciao Pepa, que tal?». «Que tal tu trabajo?». «Bien, il Real Madrid vuole vincere la Coppa Europa». «Felipe». «Sì?». «So che in Italia le università sono occupate» «Sì. In Italia gli studenti stanno lottando contro una legge proposta dal ministro Ruberti che prevede la privatizzazione dell’Università. Ho letto giusto oggi che ci sono stati degli scontri con la polizia alla facoltà di Psicologia di Padova. Ci sono stati vari arresti, vari feriti». «Felipe». «Si?». «Padova é vicino Venezia, verdad?». «Sì, Pepa. Padova é l’Università più vicina a Venezia» «O Madonna santissima, lo sapevo!». «¿Che te pasa Pepa? Volevi andare a Venezia al festival del cinema?». «No Felipe, a Venezia probabilmente ci manderanno Manolo. E’ che c’é una mia amica, lì a Venezia». «Vedi che la polizia non carica i turisti nelle gondole». «Lo so, Felipe, però la mia amica dorme nelle università occupate». «Non ci posso credere!». «Devi crederci, Felipe!». «Pepa, sai che il movimento degli studenti italiani si chiama Pantera?».«Pantera?». «Qualche tempo fa una pantera scappò da uno zoo di Roma. Voleva essere libera, la polizia ancora non é riuscita a catturarla».



«Este es el contestador de… Ciao amore, sono io. Ti chiamo dalla facoltà di Scienze Politiche di Padova. Questo pomeriggio ci sono stati degli incidenti. La polizia é entrata nell’Università ed ha caricato bestialmente gli studenti. Domani ci sarà una manifestazione. Scusa il casino, sono nel bel mezzo di una festa regge. Ti chiamo più tardi tesoro»



Il giorno dopo Pepa era felice di recarsi al lavoro. Pensò agli operai rinchiusi in fabbrica, ai minatori in miniera, alle donne segregate in casa. Pensò alla voce di Felipe. Alla sua vita, alla sua sensibilità. Pensò di avercelo avuto sempre accanto e di non averlo visto sino a quel giorno in cui le aveva parlato della Pantera. «Felipe» «Si?» «Sai una cosa?» «Che?» «Oggi venendo al lavoro ho pensato ad una ragazza che pulisce le scale nel mio palazzo. E’una ragazza giovane. Avrà sedici, diciassette anni e non so neppure come si chiama. Oggi ho pensato, per la prima volta in vita mia, che non é giusto che una ragazza tanto giovane non vada a scuola, non vada a teatro, non esca con gli amici. Non é giusto, Felipe, non é giusto» «Già» «Ed ho pensato che non so neppure come si chiama. La incontro tutti i giorni per le scale e non so neppure come si chiama, ti rendi conto? Ho pensato ai miei sedici,diciassette anni. Ho pensato a mio padre, che voleva diventassi medico e a mia madre che voleva fossi avvocato. Quando mi iscrissi alla facoltà di giornalismo mi sembrava di aver fatto la rivoluzione. Mi sembrava che avessi avuto il coraggio di scegliere la mia vita. Invece la mia vita era già stata scelta dal quartiere in cui ero nata, dalla piscina della casa dei miei genitori». «Già”. «Felipe» «Si?» «Non so da dove iniziare». «Inizia dalla tua amica. Inizia col chiederle il suo nome. Il resto verrà da sé».



«Pepa?» «Si?» «Ciao amore, sono Raquel. Sono a Bologna. E’ bellissima, dovresti vederla. Ci sono portici, e bici, e studenti. Ci sono vari collettivi politici. Un gruppo di lesbiche e femministe vorrebbe occupare un centro sociale per sole donne». «Amore?» «Si?» «Quando vieni a Madrid vorrei presentarti dei miei nuovi amici. Uno si chiama Felipe. E’ un compagno, lavora in redazione con me, è un tipo in gamba. L’altra si chiama Marta. Pulisce con sua madre le scale del mio palazzo. Ha ventun anni. Le piacciono i Rolling-stone».


V

Qualche giorno dopo Raquel a Bologna passeggiava sotto i portici e stazionava in Piazza Verdi con i suoi nuovi amici. Piazza Verdi era la piazza dei compagni, la piazza delle lotte degli studenti. Nel ‘77 la polizia vi era entrata con i carri armati. La mensa centrale era occupata. Gli studenti distribuivano lasagne e tortellini. Una ragazza col megafono parlava di diritto allo studio. Era alta. Aveva occhi verdi i capelli ricci. Si chiamava Giulia. Era di Roma e faceva teatro. Ed era bella, molto bella. Raquel non riusciva a toglierle gli occhi di dosso. Voleva conoscerla. Le si avvicinò sorridente. «E’ da molto che siete in occupazione?». «Sì. La mensa è occupata da una settimana ma le università sono occupate da vari mesi. Senti, tra un po’ c’é la riunione dei compagni. Se hai voglia possiamo prendere un caffé al Piccolo tra dieci minuti, ti va?».



Raquel non stava più nella pelle. Avrebbe preso un caffé con Giulia. Avrebbe preso un caffè con Giulia, non riusciva a pensare ad altro. Giulia era la politica fatta persona, le parlò di Giorgiana Masi, di Mara Cagol e delle lotta dei compagni. «Senti», le disse, «tra qualche giorno occupiamo un posto nuovo, è qui in via Zamboni, al 36. Ci vogliamo fare una biblioteca, una sala studio, un posto in cui riunirci, vogliamo studiare, far teatro, creare una cultura politica differente».



Il giorno dopo le due ragazze scesero in piazza a cercare i compagni. Piazza Verdi era assediata dalla polizia. Gli studenti si erano rinchiusi nelle mense, nelle università. Un’ambulanza stazionava al lato della mensa. Una giornalista spagnola era stata ferita durante gli scontri. Si chiamava Pepa. Raquel corse a cercarla. Passarono la notte al 36 occupato. Studenti del Dams, e di Scienze Politiche coloravano le mura della facoltà. Si rideva, si scherzava. C’era chi portava del vino, chi cantava in coro, chi suonava la chitarra. Giulia era in riunione con i compagni, scriveva volantini e organizzava il servizio d’ordine. Pepa prendeva nota, si ritrovò emozionata come al suo primo giorno di scuola, finalmente sapeva cos’era un’ università occupata, finalmente lo sapeva!



Prese un pennarello e scrisse sopra i muri una poesia di Cortazar: «Tocco la tua bocca, con il dito tocco il bordo della tua bocca, la disegno come se uscisse dalla mia mano, come se per la prima volta la tua bocca si schiudesse, e mi basta socchiudere gli occhi per disfare tutto e ricominciare d’accapo. Riproduco ogni volta la bocca che desidero, la bocca che la mia mano sceglie con solenne libertà e che per un caso che non voglio comprendere coincide esattamente con la tua».



Pepa aveva appreso che i muri colorati erano la forza del movimenento e che dormire nell’università occupata era il meglio che le fosse capitato in tutta la sua vita. Quella scritta rimase sui muri del ‘36 fino al giorno in cui uomini in uniforme segnarono la fine di un’esperienza e di un sogno politico collettivo. Adesso le mura del ‘36 sono bianche. Gli studenti mostrano tesserini magnetici per studiare in biblioteca e per discutere sulle guerre puniche e le conquiste normanne, ma Giulia, Raquel e Pepa ricordano ancora di quei giorni passati al ‘36, quelle notti spese a lottare e a creare uno stile di vita differente. Podran cortar todas las flores, pero no detendràn la primavera. E con una nikon, un megafono e una laptop mi dicono che se ne vanno ancora in giro ad esplorare il mondo."Podràn cortar todas las flores, pero no detendràn la primavera".


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Spagna ’36. Voci dal POUM

Se avete amato "Terra e Libertà" di Ken Loach non perdete questa splendida opera prima. Se invece non lo conoscete è il momento di scoprirlo e aggiungere al film la voce dei veri protagonisti, di coloro che sul campo di battaglia di una feroce guerra civile portarono il loro coraggio, le loro paure, i loro sogni. Complimenti a Isabella per il suo lavoro e la sua passione. L’esperienza del Poum è preziosa ancor di più in tempi come questi.

Il lavoro curato da Isabella Lorusso offre nuovi spunti sulla avvincente storia di un partito spagnolo indipendente. Il POUM (Partido Obrero de Unificación Marxista) era stato criminalizzato e calunniato dagli stalinisti che controllavano a lungo la memoria antifascista. In quanto marxisti dissidenti, i poumisti avevano avuto il coraggio di sfidare l’URSS denunciandone gli interessi nascosti sotto l’aiuto fornito alla Spagna repubblicana. Le voci dei protagonisti sopravvissuti, raccolte nel 1995, rievocano l’esperienza di una guerra civile vissuta con travolgente entusiasmo rivoluzionario. Tale clima di speranza, e di delusione, pervade le conversazioni tra una dozzina di vecchi militanti e le giovani simpatizzanti in una serie di confronti aperti in cui i ruoli di intervistato e di intervistatore spesso si alternano. Il passaggio della memoria di questa sfortunata, ma non vinta, organizzazione – sentita come “comunista libertaria” – giunge così fino ai giorni nostri. In questo libro si ritrova l’eco dell’eredità politica e umana di David, il protagonista del film "Terra e libertà” di Ken Loach. Il lettore, e ancor di più la lettrice, possono percorrere e vivere una tappa del difficile (e tutt’altro che concluso) movimento di liberazione sociale, la tappa della Spagna rivoluzionaria del 1936-1939.

Isabella Lorusso nasce ad Ostuni, in Puglia, e si laurea a pieni voti in Scienze Politiche presso l’Università degli Studi di Bologna. Vive in molte città europee e latino americane tra cui Barcellona, Cuzco, Lima e Buenos Aires dedicandosi all’insegnamento della lingua italiana in varie Università e Istituti di Cultura. Mossa da interessi artistici e politico-culturali ama esplorare e vivere mondi nuovi. Questo è il suo primo libro di interviste, tradotto anche in lingua spagnola.

http://www.catalogoaracneeditrice.eu/fmi/iwp/cgi?-db=AracneWeb&-loadframes

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Manifestazione femminista a Montalo (28/11/09)

Luigia:

Montalto è come il paese della mia adolescenza

Avevamo 13 anni
e un padre che ci prendeva a cinghiate ed ombrellate se ci scopriva al bar ad ascoltare musica e un nonno che ci faceva sedere sulle sue gambe per masturbarsi. Un padre che ci faceva una piazzata se salutavamo i nostri amici con un bacio sulle labbra perchè lui ne aveva l’esclusiva, lui sì che poteva infilarci anche la lingua.
Avevamo 13 anni
e delle madri che chiudevano entrambi gli occhi quando i nostri parenti ci usavano violenza e dei paesani che ci tendevano imboscate quando non eravamo a scuola o chiuse in casa per cercare di farci la festa e dei compagni di scuola che ci mettevano le mani addosso quando eravamo in classe, sotto lo sguardo e le risate e le beffe di tutti.
Avevamo 13 anni
quando con le amiche ci sedevamo sulle scale della chiesa con "Ciao2001" a cantare, a sognare, a reinventare il futuro, a parlare di amore, di morte e di rivoluzione quando arrivava la perpetua del prete e ci scacciava dal "sacramento" dandoci delle "brutte svergognate", ossia puttane.
Avevamo 13 anni
quando una madre, preoccupata per quello che si diceva in giro di noi(eravamo troppo libere) e per le conseguenze che potevano derivarne (stupri e molestie di branco come punizione della nostra "civile società") si rivolse ai carabinieri per dissuadere i potenziali stupratori.
Avevamo 13 anni
quando questi carabinieri, insieme ai "potenziali stupratori", di cui uno figlio di carabiniere e ora digossino, vennero in borghese a molestarci e a minacciarci perchè non eravamo gentili con loro.
Quella fu la prima volta che mi sentii dare della "terrorista" da un carabiniere, amico e padre di "potenziali stupratori" perchè non ero gentile con loro e mi ribellavo all’autorità.
Sono fuggita da quel paese ostile perchè non ho incontrato solidarietàe con essa la forza collettiva di cambiarlo. Delle mie amiche sono stata l’unica che ha cercato di liberarsi poche altre sono riuscite ad emanciparsi molte hanno accettato le "regole", si sono sposate e chiuse in casa si sono chiuse la bocca perchè non hanno incontrato solidarietà

PIUTTOSTO CHE FARE L’ENNESIMA PROCESSIONE CIVILE A ROMA ANDRO’ A MONTALTO, ARMATA FINO AI DENTI DI TUTTA LA MIA RABBIA QUELLA CHE A 13 ANNI MI HA FATTO GUADAGNARE IL TITOLO DI TERRORISTA perchè è della solidarietà fisica che le giovani donne di Montalto hanno bisogno non della nostra "civile società"


 

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podran cortar todas las flores, pero no detendran la primavera.

Podrán cortar todas las flores,

pero  nunca detendrán la primavera

 

           La noticia del traslado de Jaime me deja sin palabras y sin aliento. Mi vida ha cruzado la suya en el penal Castro-castro cuando yo iba a dictar clases representando el Instituto de Cultura y la Embajada de Italia y Jaime me recibía con un abrazo tan fuerte y una sonrisa tan grande que me costaba cada vez más regresar a la calle y vivir mi vida como si nada, como si una ley, una pared o unos uniformados pudieran separar mi existencia de la suya. Me llevaba sus palabras y su optimismo por las calles de Lima y me imaginaba su rostro mirándome en cada esquina de la ciudad: sus ojos grandes,  sus brazos fuertes, su mirada digna.  

 

 A veces le hablaba telepáticamente: «¿Cómo te ha ido el día?, ¿te has dedicado a estudiar francés, a escribir una carta o a mirar las estrellas?». Con Jaime podía hablar de todo, era un amigo, un hermano, un confidente secreto. Yo no era su profesora y él no era mi alumno aunque sí, formalmente esto era lo que éramos. Pero con él no podía poner una etiqueta a nada así que una tarde me sorprendió dedicándome un kata de artes marciales y otro día me hizo llegar un torito amarillo, pequeñito y lindo como el sol. Lo había hecho con sus manos allí, en el patio del penal, durante un taller de cerámica. Lo que fueron, son y serán los cursos y los talleres de idioma, de pintura, literatura, arte y escultura en todos los penales del mundo, nadie lo sabe ni lo sabrá nunca. Lo que sale desde unos seres tan deseosos de amor y libertad no se puede encajar en un convenio entre instituciones ni en un formal papel ministerial que habla de re-educación y de re-inserción social. Las exposiciones de Jaime y de todos los otros artistas del Castro-Castro en el Centro Cultural Norte Americano hacían especiales mis paseos por Lima, antes de las navidades. El centro se llenaba de voluntarios que llegaban de todas las partes del mundo para ayudar, sin prejuicios, a construir un futuro mejor.

 

  Me llevé a Italia la escultura de una mujer que vivía en la cárcel de Chorrillo y recuerdo los hipopótamos de Javier, las pinturas de Pacifico, las poesías de Martita, y los cursos de italiano realizados por Emilio. Todo esto, me pregunto: «¿dónde irá? Este traslado acabará con tantos talleres y tantas  esperanzas.  ¿Qué sentido tiene tanta represión? ¿Cómo saldrá la gente después de quince, veinte años de cárcel? » En el Castro-castro yo era sólo una profesora pero el simple hecho de poder abrazar a mis alumnos, darles una mano, un beso, regalarles una sonrisa, decirles «hola chicos, la próxima semana les tomaré un examen, no se olviden de estudiar». Cosas así, pequeños y simples gestos de la vida cotidiana eran de vital importancia para llenar de contenidos los grises informes  de políticos y juristas que no saben, o no quieren saber, que una sonrisa vale más de mil palabras. 

 

 

Y todo esto no se puede comunicar con vidrios y cámaras y vigilantes y grabadoras y pasillos desiertos y teléfonos donde pasa una comunicación que nunca llega donde tiene que llegar.

El Castro-castro no era el paraíso, pero había una libre circulación de ideas y acciones, se estudiaba italiano, latín, inglés, francés, se aprendía cerámica, se practicaban artes marciales, se tocaban instrumentos musicales, se creaban pequeñas bibliotecas con el apoyo de gente al exterior. Yo dictaba mis clases y luego podía conversar tranquilamente con los chicos en el patio o en sus “celdas”. Una tarde Jaime me invitó a visitar su pequeño cuarto lleno de videos y libros y objetos personales y  fue una tarde maravillosa con su hija Paula que cantaba y daba vuelta por los pasillos, su compañera que charlaba conmigo y Jaime que nos preparaba un maravilloso café italiano. Yo estaba echada en su cama y miraba su mundo, me pareció una gran suerte estar allí y no lo olvidaré nunca.

 

Y Emilio, colega, maestro y gran profesor, el hombre que como autodidacta había aprendido italiano y lo enseñaba con un optimismo y con una sonrisa grande, dos ojos grandes como el mar; y estudiaba gramática, y leía libros, y comunicaba a los chicos este deseo de que un día ellos también, saliendo de allí, podrían enseñar y trabajar al exterior. Se firmó un convenio con el Instituto de Cultura italiana gracias a varios profesores disponibles, y se tomaban exámenes oficiales, reconocidos por la Universidad de Perugia y de Siena.

 

Tal vez no era mucho, pero al mismo tiempo era gran cosa. Así como gran cosa era el esfuerzo de dos colegas, una italiana y otra holandesa que pasaban tres, cuatro meses al año con los chicos del penal a enseñarles holandés, ingles, latín e italiano dejando sus países, sus amigos, sus familias y su todo. Y la red increíble de voluntarios que apoyaban con un libro, un panetón por navidad, un cuadro, una pequeña escultura, un juguete para los niños, un taller de francés, un abrazo imprevisto y tantos otros pequeños gestos de la vida cotidiana. «¿Qué será de todo esto? », me pregunto. Ahora vivo en Italia y les mando a Jaime, a Emilio y a todos los chicos que he tenido la suerte de conocer una sonrisa inmensa y un abrazo grande; tan grande para que cruce los océanos, rompa los prejuicios del mundo y llegue allí donde todavía hay gente que lucha para construir un mundo mejor.

 Cierro los ojos y los veo en mi alma.  

 

Artìculo escrito por la Dott. Isabella Lorusso

Ha trabajado durante seis años como profesora de italiano en el Instituto de Cultura Italiana de Lima, en la Universidad Nacional de Tumbes (Perú), en la Universidad S.Antonio Abad de Cuzco (Perú), en la Universidad Enrique Guzmán y Valle- Chosica-Lima (Perú) gracias a un convenio de expertos y voluntarios en América latina firmado entre el Instituto de Cultura Italiana de Lima y las principales Universidades peruanas.    

 

 

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Vida politica de Jaime Castillo Petruzzi.

DATOS Y CRONOLOGÍA:

Jaime Francisco Sebastián Castillo Petruzzi

1956, 11 de octubre, nace en Linares, Chile.

1970, gobierno de la Unidad Popular. Se integra a las filas del Frente Estudiantil Revolucionario y posteriormente al Movimiento de Izquierda Revolucionario, MIR de Chile.

1973, dictadura militar de Pinochet.

1974, julio, parte exiliado a Francia. Participa activamente en la lucha contra la dictadura de Pinochet.

1988, diciembre, regresa a Chile tras ser borrado de la última lista de retornos prohibidos por la dictadura militar.

1992, inicia a colaborar, como voluntario internacionalista, en la lucha contra la dictadura de Fujimori y Montesinos.

1993, 14 de octubre, es detenido en Lima.

1994, enero, juzgado sumariamente en tres horas por tribunal militar sin rostro, sin derecho a defensa, su abogado no pudo hacer uso de la palabra, es condenado a cadena perpetua por “traición a la patria” y pertenecer el Movimiento Revolucionario Tupac Amaru, MRTA.

1994, mayo, es trasladado a Yanamayo Puno (4.000 msnm.) donde permanece ochos años bajo régimen cerrado especial. Por el difícil acceso y la lejanía del lugar, las condiciones climáticas, así como las dificultades económicas, en todo ese tiempo recibió sólo por algunas horas y una vez al año la visita de sus familiares. Agotado el fuero judicial interno dentro del Perú se recurre a la Corte Interamericana de Derechos Humanos, CIDH.

1999, 30 de mayo, fallo de la CIDH ordena al estado peruano la derogación de las leyes excepción que sirvieron de marco jurídico a la ley antiterrorista y ordena nuevo juicio a Castillo Petruzzi, en el marco de la convención de San José, teniendo que respetarse debido proceso y el derecho a defensa.

1999, el Perú se retira de la juridicidad contenciosa de la CIDH, no acata fallo Castillo Petruzzi.

2000, huída del Perú de Alberto Fujimori, se instala el gobierno de transición de Valentín Paniagua. Inicia una huelga de hambre junto a los seis chilenos encarcelados en Yanamayo exigiendo ser repatriados a Chile.

2001, mayo, es trasladado a Lima junto a los otros presos políticos y sentenciados chilenos. Gobierno de Valentín Paniagua, se reincorpora a la CIDH y decide acatar fallo Castillo Petruzzi.

2001 junio, anulan sentencia a cadena perpetua, se vuelve a foja cero, se inicia nuevo proceso judicial con una “modificación benigna” de la ley 25475 (ley medular de la legislación antiterrorista fujimorista). Termina huelga de hambre de los seis chilenos condenados en Perú, después de 36 días.

2003, septiembre, es condenado a 23 años de prisión y a una reparación civil de 250.000 nuevos soles, en forma mancomunada con dos de sus cosentenciados chilenos que actualmente mantienen un régimen de semi libertad.

Jaime Castillo Petruzzi, ha venido cumpliendo condena en el penal de régimen ordinario Miguel Castro Castro de la ciudad de Lima, Perú. El día de ayer, en horas de la madrugada, ha sido trasladado al penal de Piedras Gordas en la misma capital peruana junto con otros 10 prisioneros.

Podría haber alcanzado su libertad en junio 2010, si se le reconocía, de acuerdo a ley, su derecho a los beneficios penitenciarios (tres cuartas partes de la condena cumplida; redención de la pena del siete por uno por motivo de trabajo y estudio). El actual gobierno peruano, el día de ayer, ha promulgado nueva ley, aprobada por el Congreso, eliminando los beneficios penitenciarios. Dentro de este nuevo marco legal, Jaime Castillo Petruzzi, recién saldría en libertad cumpliendo el íntegro de la pena, el 14 de octubre 2016.

Información actualizada al 15 de octubre de 2009

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Carta de Jaime Castillo Petruzzi

  • reproducimos la carta enviada por Jaime Castillo Petruzzi este miércoles 28 de octubre:

     

  • Ancón 28-10-09
    Sra. Verónica Reyna
    Directora Fasic
    Su Despacho

    Estimada Dra. Reyna. Con alegría y optimismo me he enterado de sus gestiones ante la Comisión y la Corte Interamericana de Justicia, a propósito de los últimos sucesos en los que me he visto involucrado contra mi voluntad (traslado desde el Establecimiento Penal Miguel Castro Castro al Establecimiento Penitenciario Ancón – Piedras Gordas, el 14 oct. 09)

    Estimo conveniente hacerle llegar un breve resumen, testimonial, de lo que ha sido mi vida en prisión en el Perú hasta el día de hoy, a fin de que usted pueda completar el panorama informativo sobre mi situación actual.

    Luego de haber sido condenado a cadena perpetua por el delito de Traición a la Patria, en enero 1994, Lima,
    -   Fui trasladado al EP Yanamayo en mayo ’94. Régimen cerrado y aislado, sin visitas todo el primer año de detención, con 23 ½ h. de encierro en celda unipersonal, sin luz ni agua, pésima alimentación. Imposibilidad de trabajar, estudiar, leer ni mucho menos tener visita de mis familiares. Sólo recibí visita consular y de la CICR.
    -   El fallo de la Corte IDH, que ordena al Estado Peruano derogar la legislación antiterrorista no fue acatado y, en un sesgado cumplimiento de él nos someten a un juicio con una interpretación benigna del Decreto Ley 25475, y el Decreto Ley 26… , siendo condenados en Lima, en el año 2003, mes de sept. en mi caso a 23 años.
    -   Todos mis coacusados (Alejandro Astorga Valdez, condenado a 15 años; Ma. Concepción Pincheira Sáez, 18 años y Lautaro Enrique Mellado Saavedra a 20 años) ya gozan de libertad condicional.
    -   Todos los prisioneros políticos chilenos, los 3 de mi caso y 3 más: Alejandro Valdivia y Marcela González, condenados a 20 años y Sibilla Arredondo vda. de Arguedas, gozan de libertad plena.
    -   Sólo quedo en prisión yo. Y, como bien sabrá Ud, la ley que regulaba los beneficios penitenciarios a los condenados por terrorismo, ha sido derogada. Esto hacía que mi horizonte de libertad, es decir las ¾ de mi condena (feb. de 2011) y la reducción de la pena por trabajo o estudio, a razón de 7×1, fuese para julio del 2010, aproximadamente. Ahora mi horizonte de libertad sería oct. 2016, es decir, 7 años más de los 16 ya cumplidos. Total 23 años.

    En todo el periodo de mi carcelería en Lima, desde mayo 2001 no tengo ningún parte o sanción disciplinaria, ni llamado de atención o problema alguno, antes con la autoridad de la Policía Nacional del Perú PNP y a partir de octubre 2007 con la autoridad del Instituto Nacional Penitenciario INPE. Siempre diálogo constructivo.

    Mi estadía en el Establecimiento Penal Miguel Castro Castro ha sido caracterizada por una permanente participación, con mis trabajos de cerámica y pintura, en todos los eventos que convocara el INPE o antes la PNP, organizaciones que colaboran en las cárceles como son la Pastoral de la Arquidiócesis de Chosica; La Confraternidad Carcelaria del Perú; las ONGs “Paz y Esperanza” y “Dignidad Humana y Solidaridad”, etc. También mis cursos de pintura, teatro, computación, repostería, manualidades, enfermería, cocina criolla, pastelería, cerámica, etc, debidamente acreditados y certificados por las oficinas de trabajo y estudio del INPE, demuestran mi participación en las diferentes actividades del penal a lo largo de todos estos años.

    La vida cultural y artística, deportiva y recreativa se ve reflejada en un sin número de competencias y torneos dentro del penal y en competencias con otros penales, donde en varias oportunidades se obtuvieron primeros puestos en equipos e individuales, personales, en canto, danza, volley, fulbito, etc.

    Desde el 2008 estaba realizando estudios universitarios a distancia, en la Universidad Alas Peruanas (UAP), la carrera de “Ciencias de la Comunicación”, ya en tercer ciclo.

    Los internos formamos desde el 2001 talleres de estudio de idiomas de francés, italiano e inglés, reconocidos por las instituciones culturales pertinentes (L’Alliance Francaise; Instituto Italiano de Cultura, Instituto Peruano Británico de Cultura, etc.) donde mi persona era profesor de francés e italiano, pudiendo certificar a cientos de prisioneros a lo largo de estos años, y posibilitándoles una visión amplia cultural y laboral enormes. Varios de nuestros egresados son hoy profesores regulares en colegios y academias de idiomas.

    Y, en el plano más intimo y familiar, Dra. Reyna, he tenido la maravillosa oportunidad de conocer a mi actual compañera, Maite Palacios Pérez, con la cual tenemos una hijita, Paula, de 4 años de edad y estamos esperando un bebé para marzo 2010. Un proyecto familiar y de vida pleno, hermoso y de futuro. Todo esto era, estaba orientado a mi cercana libertad condicional (2do semestre 2010) y ahora no tan sólo el horizonte se ve más lejano sino que, como ya Ud. conoce, el mismo día de la derogación de nuestros beneficios penitenciarios fui trasladado al Establecimiento Penal de Ancón, el penal más severo del país actualmente, junto con el de Challapallca. (14 oct. 2009)

    Acá Dra. no puedo tener la vida familiar intensa y amorosa que tenía en Miguel Castro Castro, se ha cortado abruptamente el lazo familiar que construíamos con Maite, Paula y bebé en camino, causando un daño absolutamente cruel e injusto, enorme, a mi familia toda.

    Ahora, no puedo estudiar ni trabajar. Nada de nada! No tengo luz en mi nueva celda. Tengo sólo 2 horas de patio (antes era de las 06:00 a las 18:00) al día. Sólo veo las caras de 20 presos, aislados como yo. A la fecha ninguna autoridad del INPE me ha podido hacer conocer la razón de mi traslado y el porqué estoy en este penal de Régimen Cerrado Especial (RCE), cuando yo estoy clasificado, (luego de años y años de participar en todas mis terapias sicológicas, sociales, legales, etc, y obviamente de ser bien evaluado) en el Régimen Cerrado Ordinario (RCO)

    Dra.: no me corresponde estar en este EP de Régimen Cerrado Especial. Es un claro abuso de mis derechos. Ni mi persona ni mi abogado fuimos informados de la supuesta falta disciplinaria que ameritara mi traslado. No tuve proceso alguno. No fui acusado ni tuve oportunidad de hacer mis descargos pertinentes.

    Las razones de mi traslado obedecen a cuestiones de corrupción del Establecimiento Penal Miguel Castro Castro. Estas autoridades argumentan razones de seguridad y que, al no tener beneficios penitenciarios, no necesitamos trabajar ni estudiar. Sólo cumplir nuestra condena!! Una visión medieval o dictatorial de lo que es la vida en prisión.

    Todo el proceso de nuestro traslado es ilegal. Esto lo demuestra el hecho de que las autoridades el EP de Ancón, a 15 días de estar aquí, aún no nos clasifican, nos tienen, en calidad de “depositado”, vulnerando mis derechos al trabajo, estudio, vínculo familiar, etc. Están, supuestamente esperando instrucciones superiores. Nos dicen que clasificarnos es una ilegalidad más.

    Lo único que pido y que queda allí es que nos devuelvan al EP Miguel Castro Castro, a mi pabellón y a mi celda y reanudar mi vínculo familiar.

    Lo único que pido es que me dejen vivir los últimos años de mi condena en tranquilidad y respetando mis derechos de prisionero político extranjero. O en el mejor de los casos, que me envíen a cumplir el resto de mi condena a CHILE.

    Estimada, Sra. Verónica, le agradezco de todo corazón su interés por mi caso y el de mi familia en Chile y acá, que son a fin de cuentas directamente afectados en su tranquilidad y bienestar por los atropellos a los que me veo sometido, tras 16 años de prisión.

    Le envío toda la fuerza de nuestros corazones, de mi familia peruana y chilena y estoy seguro de que Ud. sabrá poner muy en alto los principios de justicia y legalidad que me corresponden.

    Con mi mejor sonrisa, Atte.

    Jaime Fco. S. Castillo Petruzzi
    DNI 6-490-919-3

    Establecimiento penal de Ancón, Perú

    28-10-09

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En octubre no hay milagros…

Jaime Castillo, que ya lleva 16 años encarcelado, fue trasladado intempestivamente del penal de Castro Castro en Lima a la cárcel de Alta Seguridad de Piedras Gordas a más de 50 kilómetros de Lima. Esto sucede tras un aumento de la represión a los presos políticos y tras una ley que les quita los beneficios a quienes están acusados de terrorismo, ley que el gobierno peruano pretende que tenga efecto retroactivo, retrasando la libertad de Jaime Castillo en siete años más.

A continuación una nota enviada por su compañera Maite Palacios y un resumen de la situación de Jaime Castillo:

 

EN OCTUBRE NO HAY MILAGROS*

Cuelgo el teléfono -que todas las noches ritualmente descuelgo para evitar que un chirrido imprevisto despierte a Paula– y me timbra en la mano, una voz amiga me pregunta si he sabido algo de Jaime, respondo que nada desde la noche anterior. Se hace silencio y ya sé lo que viene…

La fuerza con la que el viento hace volar la arena torna la imagen lejana de la cárcel un espejismo gris y movedizo, mimetizado entre dunas, cerros y cielo triste, el penal de Piedras Gordas, muy cerca a las playas marinas al norte de Lima, se presenta como una enorme construcción al revés, se erige hacia abajo, ¿tendrá fondo? me pregunto.

Es extraño, porque la mujer que revisa mis ropas se encarga, además, de hacerme recordar que yo conozco las reglas del juego, desde hace ya varios años en el otro penal de Lima, pero por si acaso me recita la lista de cosas que puedo y que no puedo llevar puestas, y entonces ¿de dónde esa sensación de pisar una cárcel por primera vez? y claro, se trata de un establecimiento con alta tecnología para el Perú, casi privado de presencia humana, un penal “modelo”.

Se abre la puerta metálica y trato de seguir las instrucciones sobre donde dirigirme para llegar al locutorio, me sentiría muy sola si no fuera porque el hombre del ingreso tuvo a bien informarme que 187 cámaras vigilan el recinto y sus arenales. El pasadizo subterráneo es largo y oscuro, me imagino a Paula corriendo por ahí, gritando las vocales para que su voz se repita varias veces con el eco. Empiezo a sentir frío, giro a la derecha, creo que después a la izquierda, luego bajo, después subo, y no se cómo llego al cuarto helado donde hay un gran vidrio, dos sillas mirándose interpuestas y dos teléfonos colgados. Como Jaime no ha llegado aún ensayo algunas caras, me río, abro los ojos, frunzo el seño, me arreglo el pelo desordenado, lo espero…

El tiempo pasa volando entre sonrisas, bromas, situaciones que ir resolviendo, lo del traslado a Chile se hace urgente, no me sorprende su optimismo, su mirada fiera, su belleza grande, su ternura. Rompe el encanto de nuestro solitario encuentro un fuerte calambre a su pierna derecha, lo siento descomponerse, está demacrado en realidad, lo observo sin poder ayudarlo, camina, estira la pierna, sin el teléfono no siento lo que me dice, el calambre no pasa: ha cumplido 53 hace tres días, y justo hoy, 14 de octubre, 16 años de prisión, ¿es que el cuerpo empieza a abandonarte, Jaime? ¿es que ese desdoblamiento del cuerpo del preso del que nos habla Foucault se hace ver?.

Se acabó el tiempo, sale de la sala sin cojear, trata de regalarme la última sonrisa, pero la rigidez de la cara no lo ayuda, regreso sobre mis pasos siempre por el pasillo larguísimo, al final del corredor me espera un hombrecillo en uniforme que me pregunta con macabra curiosidad – ¿qué le pareció el penal?- superado el desconcierto de su pregunta atino a decir, por qué no cambia de trabajo.

Otra vez en la arena me doy vuelta por última vez y me digo, algo de bello tendrá que tener, a lo lejos diviso el único toque de color en el paisaje, una bandera peruana flameando en soledad.

Maite Palacios

*Título de la novela del escritor vanguardista peruano Oswaldo Reynoso.

14 de octubre 2009

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Presos politicos en Peru’.

Ho il piacere di ospitare nel mio blog un articolo scritto da France Pesce, insegnante di italiano e latino presso il carcere di massima sicurezza Castro-castro di Lima. Per chi non lo sapesse da molti anni erano lì in carcere realizzati vari tipi di atelier di lingue (italiano, latino, inglese, francese), ceramica, pittura, arti marziali. C’erano prigionieri politici e comuni, dell’MRTA e Sendero, ma adesso proprio coloro che organizzavano i vari corsi e le varie attività ricreative e culturali sono stati trasferiti e messi in isolamente. La cutura e la critica sociale fanno ancora paura, persino dietro le sbarre. Persino dall’altro capo del mondo. Ecco qui l’articolo di Franca Pesce che ringraziamo vivamente per l’appoggio e la solidarietà. La invitiamo a scrivere ancora sulla nostra bakeka.

Nei giorni scorsi a Roma, nell’ambito del festival del cinema, è stato proiettato il film di Miguel Littin: "Dawson Isla 10".
In quest’isola, a cui si era cancellato il nome e che veniva chiamata solo con il numero dieci, dopo il colpo di stato di Pinochet erano stati incarcerati i maggiori collaboratori del presidente Salvador Allende.
La pellicola presenta la capacità di resistenza dei reclusi, la fierezza nel manifestare la loro dignità, che altri avrebbero voluto calpestare, i valori morali, che li avevano portati a collaborare con Salvador Allende, il loro coltivare la cultura e l’umanità anche nel luogo in cui i loro carcerieri avrebbero voluto annientarli fisicamente e mentalmente.
Mi ha colpito questa vicenda perchè in questo momento in Perù, nazione confinante col Cile, altri uomini stanno vivendo un’esperienza, per alcuni versi, simile a questa.
Dal 2001 un prigioniero politico, condannato con l’accusa di appartenere all’MRTA, ha organizzato un laboratorio per lo studio dell’italiano, intitolandolo " Papà Cervi". E’ stato tutto estremamente difficile per la mancanza di mezzi, per gli ostacoli posti dall’amministrazione carceraria e per l’ambiente ostile. Nonostante ciò, da tre anni il lavoro svolto da autodidatta dall’ingener Emilio Villalobos Alva, organizzatore ed insegnante del laboratorio, ha ottenuto il riconoscimento dell’Istituto Italiano di Cultura di Lima, che periodicamente ha inviato insegnanti a verificare e a valutare il livello di conoscenze raggiunte. Lo stesso direttore, prof. Renato Poma, nell’ottobre scorso, si è recato nella stanza utilizzata per le lezioni, in occasione della "Settimana della Lingua Italiana nel Mondo" , valorizzando la serietà e l’impegno dimostrato. Molte altre sono state le iniziative ideate ed organizzate dal laboratorio "Papà Cervi", come incontri culturali con la presenza di insegnanti ( come il prof. Maurizio Leva dell’Università "Sedes Sapientiae" di Lima), di artisti, o come la fondazione della biblioteca "Javier Heraud", adiacente alla stanza delle lezioni.
Io ho vissuto un’esperienza molto interessante, essendomi recata in estati alterne, in questi ultimi anni in quel carcere "Castro Castro" di Lima dove ho insegnato per poco più di un mese italiano e latino nel laboratorio "Papà Cervi".
Ho sperimentato così l’alto senso morale ispiratore del laboratorio, la coerenza e la capacità di combattere le brutture di un sistema carcerario oppressivo, l’assimilazione di valori coltivati attraverso l’impegno e la cultura.
Ne ho ricevuto insegnamenti morali ed umani di grande profondità e valore. 
Purtroppo in queste ultime settimane dal Congresso del Perù sono state prese decisioni che aggravano la posizione dei prigionieri poltici, non considerati più degni di accedere ai benefici penitenziari previsti dalla legge. Anzi, senza preavviso, pochi giorni  fa il 14   ottobre, dieci  di loro sono stati trasferiti in un altro supercarcere di massima sicurezza, quello di Piedra Gorda. Tra loro c’era Emilio Villalobos Alva, che ha dovuto interrompere il suo proficuo  insegnamento ai compagni.
Non è facile spiegare la complessa situazione di un paese difficile come il Perù.
Mi era stato detto, a proposito degli anni di Fujimory, ora in carcere per violazioni dei diritti umani:" Qui non è come in Europa: si può uccidere per fame o con le pallottole, è la stessa cosa."
Io penso che si tenta anche di uccidere togliendo la speranza e impedendo di nutrire la mente con interessi culturali e l’animo con valori morali.
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lejano

Hoy te siento lejano

Hoy te siento lejano

como si mi memoria

fracasase en construir tu imagen

Como si pronunciar tu nombre

fuese otro idioma de acentos complicados

que no caben en mi boca

Como si el pan que compartimos

todos los dias

mordisco a mordisco

estuviese en escasez desde hace meses

Me espanta esta lejanìa

Como aquellas lejanìa acidentales

cuando uno se duerme en un tren

y va a parar a un lugar desconocido

Sarà que te encontrarè en la poxima parada?

Serà que tù me esperas al final del recorrido?

O quizàs ambos somos pasajeros perdidos

creando paisajes que no existen

en éste tùnel subteràneo.

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Grafitis (J.Cortàzar).

                                                                             Graffiti 

A Antoni Tàpies


   Tantas cosas que empiezan y acaso acaban como un juego, supongo que te hizo gracia encontrar un dibujo al lado del tuyo, lo atribuiste a una casualidad o a un capricho y sólo la segunda vez te diste cuenta que era intencionado y entonces lo miraste despacio, incluso volviste más tarde para mirarlo de nuevo, tomando las precauciones de siempre: la calle en su momento más solitario, acercarse con indiferencia y nunca mirar los grafitti de frente sino desde la otra acera o en diagonal, fingiendo interés por la vidriera de al lado, yéndote en seguida. 

Tu propio juego había empezado por aburrimiento, no era en verdad una protesta contra el estado de cosas en la ciudad, el toque de queda, la prohibición amenazante de pegar carteles o escribir en los muros. Simplemente te divertía hacer dibujos con tizas de colores (no te gustaba el término grafitti, tan de crítico de arte) y de cuando en cuando venir a verlos y hasta con un poco de suerte asistir a la llegada del camión municipal y a los insultos inútiles de los empleados mientras borraban los dibujos. Poco les importaba que no fueran dibujos políticos, la prohibición abarcaba cualquier cosa, y si algún niño se hubiera atrevido a dibujar una casa o un perro, lo mismo lo hubieran borrado entre palabrotas y amenazas. En la ciudad ya no se sabía demasiado de que lado estaba verdaderamente el miedo; quizás por eso te divertía dominar el tuyo y cada tanto elegir el lugar y la hora propicios para hacer un dibujo. 

Nunca habías corrido peligro porque sabías elegir bien, y en el tiempo que transcurría hasta que llegaban los camiones de limpieza se abría para vos algo como un espacio más limpio donde casi cabía la esperanza. Mirando desde lejos tu dibujo podías ver a la gente que le echaba una ojeada al pasar, nadie se detenía por supuesto pero nadie dejaba de mirar el dibujo, a veces una rápida composición abstracta en dos colores, un perfil de pájaro o dos figuras enlazadas. Una sola vez escribiste una frase, con tiza negra: A mí también me duele. No duró dos horas, y esta vez la policía en persona la hizo desaparecer. Después solamente seguiste haciendo dibujos. 

Cuando el otro apareció al lado del tuyo casi tuviste miedo, de golpe el peligro se volvía doble, alguien se animaba como vos a divertirse al borde de la cárcel o algo peor, y ese alguien como si fuera poco era una mujer. Vos mismo no podías probártelo, había algo diferente y mejor que las pruebas más rotundas: un trazo, una predilección por las tizas cálidas, un aura. A lo mejor como andabas solo te imaginaste por compensación; la admiraste, tuviste miedo por ella, esperaste que fuera la única vez, casi te delataste cuando ella volvió a dibujar al lado de otro dibujo tuyo, unas ganas de reír, de quedarte ahí delante como si los policías fueran ciegos o idiotas. Empezó un tiempo diferente, más sigiloso, más bello y amenazante a la vez. Descuidando tu empleo salías en cualquier momento con la esperanza de sorprenderla, elegiste para tus dibujos esas calles que podías recorrer de un solo rápido itinerario; volviste al alba, al anochecer, a las tres de la mañana. Fue un tiempo de contradicción insoportable, la decepción de encontrar un nuevo dibujo de ella junto a alguno de los tuyos y la calle vacía, y la de no encontrar nada y sentir la calle aún más vacía. Una noche viste su primer dibujo solo; lo había hecho con tizas rojas y azules en una puerta de garage, aprovechando la textura de las maderas carcomidas y las cabezas de los clavos. Era más que nunca ella, el trazo, los colores, pero además sentiste que ese dibujo valía como un pedido o una interrogación, una manera de llamarte. Volviste al alba, después que las patrullas relegaron en su sordo drenaje, y en el resto de la puerta dibujaste un rápido paisaje con velas y tajamares; de no mirarlo bien se hubiera dicho un juego de líneas al azar, pero ella sabría mirarlo. Esa noche escapaste por poco de una pareja de policías, en tu departamento bebiste ginebra tras ginebra y le hablaste, le dijiste todo lo que te venía a la boca como otro dibujo sonoro, otro puerto con velas, la imaginaste morena y silenciosa, le elegiste labios y senos, la quisiste un poco. 

Casi en seguida se te ocurrió que ella buscaría una respuesta, que volvería a su dibujo como vos volvías ahora a los tuyos, y aunque el peligro era cada vez mayor después de los atentados en el mercado te atreviste a acercarte al garage, a rondar la manzana, a tomar interminables cervezas en el cafe de la esquina. Era absurdo porque ella no se detendría después de ver tu dibujo, cualquiera de las muchas mujeres que iban y venían podía ser ella. Al amanecer del segundo día elegiste un paredón gris y dibujaste un triángulo blanco rodeado de manchas como hojas de roble; desde el mismo café de la esquina podías ver el paredón (ya habían limpiado la puerta del garage y una patrulla volvía y volvía rabiosa), al anochecer te alejaste un poco pero eligiendo diferentes puntos de mira, desplazándote de un sitio a otro, comprando mínimas cosas en las tiendas para no llamar demasiado la atención. Ya era noche cerrada cuando oíste la sirena y los proyectores te barrieron los ojos. Había un confuso amontonamiento junto al paredón, corriste contra toda sensatez y sólo te ayudó el azar de un auto dando vuelta a la esquina y frenando al ver el carro celular, su bulto te protegió y viste la lucha, un pelo negro tironeado por manos enguantadas, los puntapiés y los alaridos, la visión entrecortada de unos pantalones azules antes de que la tiraran en el carro y se la llevaran. 

Mucho después (era horrible temblar así, era horrible pensar que eso pasaba por culpa de tu dibujo en el paredón gris) te mezclaste con otras gentes y alcanzaste a ver un esbozo en azul, los trazos de ese naranja que era como su nombre o su boca, ella así en ese dibujo truncado que los policías habían borroneado antes de llevársela; quedaba lo bastante como para comprender que había querido responder a tu triángulo con otra figura, un círculo o acaso un espiral, una forma llena y hermosa, algo como un sí o un siempre o un ahora. 

Lo sabías muy bien, te sobraría tiempo para imaginar los detalles de lo que estaría sucediendo en el cuartel central; en la ciudad todo eso rezumaba poco a poco, la gente estaba al tanto del destino de los prisioneros, y si a veces volvían a ver a uno que otro, hubieran preferido no verlos y que al igual que la mayoría se perdieran en ese silencio que nadie se atrevía a quebrar. Lo sabías de sobra, esa noche la ginebra no te ayudaría más a morderte las manos, a pisotear tizas de colores antes de perderte en la borrachera y en el llanto. 

Sí, pero los días pasaban y ya no sabías vivir de otra manera. Volviste a abandonar tu trabajo para dar vueltas por las calles, mirar fugitivamente las paredes y las puertas donde ella y vos habían dibujado. Todo limpio, todo claro; nada, ni siquiera una flor dibujada por la inocencia de un colegial que roba una tiza en la clase y no resiste el placer de usarla. Tampoco vos pudiste resistir, y un mes después te levantaste al amanecer y volviste a la calle del garage. No había patrullas, las paredes estaban perfectamente limpias; un gato te miró cauteloso desde un portal cuando sacaste las tizas y en el mismo lugar, allí donde ella había dejado su dibujo, llenaste las maderas con un grito verde, una roja llamarada de reconocimiento y de amor, envolviste tu dibujo con un óvalo que era también tu boca y la suya y la esperanza. Los pasos en la esquina te lanzaron a una carrera afelpada, al refugio de una pila de cajones vacíos; un borracho vacilante se acercó canturreando, quizo patear al gato y cayó boca abajo a los pies del dibujo. Te fuiste lentamente, ya seguro, y con el primer sol dormiste como no habías dormido en mucho tiempo. 

Esa misma mañana miraste desde lejos: no lo habían borrado todavía. Volviste al mediodía: casi inconcebiblemente seguía ahí. La agitación en los suburbios (habías escuchado los noticiosos) alejaban a la patrulla de su rutina; al anochecer volviste a verlo como tanta gente lo había visto a lo largo del día. Esperaste hasta las tres de la mañana para regresar, la calle estaba vacía y negra. Desde lejos descubriste otro dibujo, sólo vos podrías haberlo distinguido tan pequeño en lo alto y a la izquierda del tuyo. Te acercaste con algo que era sed y horror al mismo tiempo, viste el óvalo naranja y las manchas violetas de donde parecía saltar una cara tumefacta, un ojo colgando, una boca aplastada a puñetazos. Ya sé, ya sé ¿pero qué otra cosa hubiera podido dibujarte? ¿Qué mensaje hubiera tenido sentido ahora? De alguna manera tenía que decirte adiós y a la vez pedirte que siguieras. Algo tenía que dejarte antes de volverme a mi refugio donde ya no había ningún espejo, solamente un hueco para esconderme hasta el fin en la más completa oscuridad, recordando tantas cosas y a veces, así como había imaginado tu vida, imaginando que hacías otros dibujos, que salías por la noche para hacer otros dibujos.

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